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Questo articolo è stato pubblicato il 04 settembre 2015 alle ore 06:36.

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«Andiamo in Germania». Dal predellino di un treno stipato all’inverosimile i rifugiati già a bordo guardano quelli sul marciapiede, che premono, si agitano, tengono in braccio i bambini per proteggerli dalla calca soffocante. La salvezza è a un passo ma non c’è spazio, non sale più nessuno.

Stazione di Keleti, Budapest, ombelico della crisi migratoria più drammatica vissuta dall’Europa nel dopoguerra. Dopo quasi tre giorni di bivacco e proteste davanti ai cancelli della stazione presidiati dalla polizia, i profughi passati dalla Serbia, siriani e non solo, vengono di nuovo ammessi ai binari. Partono treni verso Occidente, diretti al confine austriaco, tappa intermedia per il sogno tedesco. O almeno così pensano le migliaia di famiglie in fuga che per lasciarsi guerra e miseria alle spalle hanno venduto tutto e si sono messe in cammino, scavalcando muri e filo spinato.

Ma a sessanta chilometri dalla capitale ungherese, a Bicske, il treno si ferma. La polizia cerca di far scendere i migranti, i passeggeri capiscono che la destinazione è il campo profughi di Sopron per le impronte digitali e l’identificazione. E scoppia il caos. «Ce lo chiede la Germania, il problema non è europeo ma tedesco. I profughi non vogliono stare in Ungheria e nemmeno in Polonia o Slovacchia. Vogliono andare in Germania e noi dobbiamo registrarli perché le regole europee lo impongono». Mentre Viktor Orban, a Bruxelles, accanto a un imbarazzatissimo Martin Schulz, spiegava così le decisioni del suo governo, nelle campagne intorno a Budapest diventava chiaro che quelle regole non esistono più. Si sono dissolte nelle stazioni dell’Est Europa, sui binari ungheresi e austriaci, sulle coste italiane e greche, da mesi, forse anni. Senza che Bruxelles riuscisse a imboccare una nuova strada condivisa.

Alla richiesta di lasciare i treni i migranti si sono rifiutati, si sono accesi scontri con la polizia, la disperazione ha preso il sopravvento. Una donna con un neonato stretto al petto si è distesa sulle traversine minacciando il suicidio, il marito l’ha raggiunta prima di essere arrestato dagli agenti.

I vivi sui treni ungheresi, i morti in mare davanti agli occhi colpevolmente impotenti dei Grandi. Aveva scelto la via più rischiosa e messo la sua famiglia su una piccola imbarcazione Abdullah Kurdi, siriano di Kobane, la città assediata dalla guerra tra i sanguinari Assad e Al-Baghdadi. I piccoli Galip, cinque anni, Aylan, tre e la madre Rehan, 35, sono stati travolti da un’onda quando la barca si è rovesciata, in piena notte, a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Bodrum, sulla costa turca, da cui erano salpati. «Li tenevo stretti - è il racconto dell’uomo - mi sono sfuggiti dalle mani, non li ho più visti, era tutto buio. Non riuscivo neppure a sentire le loro voci».

Il corpo di Aylan è stato restituito alla terra mercoledì mattina e gli scatti del bambino con la maglietta rossa e i pantaloni blu sono diventati il simbolo della tragedia che adesso, almeno a parole, sembra scuotere le coscienze europee.

Ieri il padre ha detto che seppellirà la sua famiglia a Kobane dopo aver cercato per due volte di farle attraversare il mare verso la Grecia; dopo aver sognato tenacemente di raggiungere con essa il Canada dove vive una sua sorella. Aylan non era l’unico bambino tra i dodici migranti che il mare si è portato via a Bodrum. Ce ne erano almeno altri due, di undici e nove anni. La loro mamma, Zeynep Abbas Hadi, è sopravvissuta al naufragio.

Eppure è la potenza delle immagini di Aylan ad aver messo nell’angolo più di un potente della terra. David Cameron, attaccato persino all’interno del suo partito, sembra disposto a tornare sui suoi passi e a considerare l’accoglienza di una parte dei profughi siriani. Il governo canadese ha dovuto difendersi dalle opposizioni per le politiche restrittive adottate sull’immigrazione.

Per un giorno i profughi agli occhi del mondo sono tornati a essere solo persone innocenti che attraversano i confini per necessità. E che hanno un disperato bisogno di aiuto.

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