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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2015 alle ore 08:11.

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«QT contro QE». Non è un messaggio tra agenti segreti. Bensì, un’affermazione che circola nei mercati. Il significato? «Quantitative Tightening contro Quantitative Easing». Vale a dire, in parole semplici, manovre monetarie restrittive contro politiche espansive. Quello che, un po’ di nascosto dagli occhi dei più, va caratterizzando il mondo delle banche centrali.

La riprova? Arriva da Pechino. In particolare: dalla dinamica delle riserve della People’s Bank of China. Ebbene quest’ultima, nel recente passato, le ha ridotte non di poco. Soprattutto, prima dell’ultima svalutazione dello yuan. «Il Paese del Dragone - spiega Antonio Cesarano, esperto di Mps Capital services -, per sostenere la sua divisa contro quella statunitense, ha venduto asset incassando dollari. Questi denari sono poi serviti a comprare yuan». Con il che, per l’appunto, la moneta di Pechino si era apprezzata. Questa dinamica, ovviamente, ha comportato (a livello contabile) l’annullamento degli yuan acquisiti. E, di conseguenza, la riduzione della liquidità. Per l’appunto, il Quantitative Tightening. Una strategia, tra l’altro, messa in atto non solamente da Pechino. Anche l’istituto centrale dell’Arabia Saudita, insieme a quello di Mosca, si sono mossi lungo lo stesso sentiero. Risultato? A livello globale le riserve delle banche mondiali sono passate dal picco di circa 12.000 miliardi di dollari nel 2014 all’attuale livello di 11.400. Cioè, c’è stata una contrazione intorno ai 600 miliardi di dollari. Denari che, a causa del meccanismo sopra descritto, sono stati drenati dal mercato. Certo, da una parte la liquidità non è in diminuzione. E dall’altra, però, non può negarsi che queste manovre siano un bastone tra le ruote di chi (come Mario Draghi) spinge sul Qe.

Ciò detto, un’obiezione è d’obbligo. La People’s Bank of China (PBoC) ha, poi, svalutato lo yuan: quindi, a ben vedere, sono stati venduti yuan e il QT è finito in secondo piano. «Non è così - risponde Cesarano - . Pechino, per mantenere il livello attuale di quotazione, semplicemente acquista un po’ meno della sua valuta». Ma non c’è un’inversione di tendenza.

Anzi! Negli ultimi tempi i timori legati alla stabilità finanziaria «hanno indotto deflussi di capitali dalla Grande Muraglia. Quindi lo shopping della propria moneta, per non lasciarla troppo indebolire, dovrebbe essere continuato». Così, non è un caso che le riserve della PBoC, dal picco di circa 4.000 miliardi di dollari nell’anno scorso, si sono recentemente attestate intorno a 3.650 miliardi.

Fin qui i numeri passati: ma la dinamica proseguirà? La risposta certa non è data a nessuno. Quel che può rilevarsi è che, al di là delle dichiarazioni di facciata, in questa partita rilevano anche interessi geo-politici. Un esempio? Lo si deduce dal comportamento della stessa Cina nei confronti del Fmi. Ebbene, è noto che Pechino punta a fare entrare lo yuan nel paniere dei Diritti speciali di prelievo (Sdr) del Fondo. Una strada per imporre sempre di più la sua moneta quale valuta globale. Il mantenimento di un certo rapporto con il dollaro era finalizzato proprio a questo. Il 4 agosto, però, l’Fmi ha proposto di prorogare l’attuale paniere fino al 2016. Guarda caso, la settimana dopo, c’è stata la svalutazione «shock». Una mossa per aiutare l’export? Probabile. E, tuttavia, non sono in pochi a sostenere che l’indebolimento dello yuan sia stato anche (e soprattutto) un segnale lanciato a Washington.

Insomma, quando si parla di politiche monetarie bisogna ricordalo: le strategie non sono legate solamente alle teorie economiche.

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