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Dossier Parigi, l’accordo sul clima spiegato in sei punti

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Dossier | N. (none) articoliIl mondo contro il climate change

Parigi, l’accordo sul clima spiegato in sei punti

PARIGI - Il momento più commovente è stato quando Laurent Fabius – ministro degli Esteri francese e presidente di turno della conferenza Onu sul clima – ha detto, con voce rotta e trattenendo a stento le lacrime: «Un pensiero particolare va a tutti quelli, ministri, negoziatori e soprattutto militanti, che avrebbero voluto essere qui, oggi, in questa circostanza probabilmente storica ma che hanno agito e lottato senza poter conoscere questo giorno». Parole accolte da un lunghissimo applauso da parte delle migliaia di delegati delle 196 “parti” (195 Paesi e l'Unione europea) riuniti nella grande sala del Bourget per la presentazione del testo finale dell'accordo.

Il momento più emozionante è stato quando, alle 19.30, lo stesso Fabius ha annunciato - ottenendo l'ennesima, interminabile standing ovation - che il testo (da “prendere o lasciare”) era approvato. «Il primo accordo universale sul clima», come hanno ricordato il presidente francese François Hollande e il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon. Un accordo, appunto, «storico». Una vittoria per Hollande e la diplomazia francese, con il suo metodo fatto di capacità d'ascolto e ricerca defatigante del miglior compromesso possibile in nome dell'interesse generale, a sei anni dal fallimento di Copenaghen.

La Cop21 si è chiusa così – dopo due settimane e tre nottate di trattative serrate, in ritardo di appena un giorno rispetto alla scadenza prevista di venerdì 11 - tra applausi, abbracci, pacche sulle spalle, strette di mano, sorrisi. E la diffusa convinzione - anche tra le Ong - che se non tutti i problemi hanno trovato una soluzione, se rimangono ampie zone di opacità, se non c'è la garanzia del raggiungimento degli ambiziosi obiettivi, se rimane la divisione tra Nord e Sud del mondo, se non c'è neppure un riferimento alla questione del prezzo dell'anidride carbonica, è stato fatto un passo rispetto al quale non si potrà più indietreggiare, si è comunque entrati in una fase di non ritorno. Ma ecco i principali punti dell'intesa, che entrerà in vigore nel 2020.

L'obiettivo di lungo periodo
L'articolo 2, come già previsto dall'ultima bozza di giovedì sera, prevede che «l'aumento della temperatura terrestre» a fine secolo «dovrà essere ben al di sotto dei due gradi rispetto all'era preindustriale e l'azione dovrà essere proseguita per limitarla a 1,5 gradi», riconoscendo che questo «ridurrà significativamente i rischi e l'impatto del cambiamento climatico». Si tratta di una concessione ai Paesi più soggetti a fenomeni di siccità e inondazioni, anche se quello di 1,5 gradi è un obiettivo simbolico perché sono più o meno tutti d'accordo nel ritenerlo irrealistico. Basti ricordare che a oggi l'aumento è di 0,86 gradi.

Cosa fare per rispettare l'obiettivo
Il testo non prevede alcun target preciso in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra (principalmente anidride carbonica, dovuta in larga parte all'utilizzo di energie fossili, e metano). Si dice solamente, all'articolo 4, che «il picco dovrà essere raggiunto il più rapidamente possibile», stabilendo che i Paesi in via di sviluppo vi arriveranno più tardi, e che «le emissioni dovranno quindi diminuire rapidamente per arrivare nella seconda metà del secolo a un equilibrio tra le emissioni e il loro assorbimento» (si presume, ma non è esplicitato, da parte delle foreste, dagli oceani e dalle tecnologie di “cattura” della CO2). È scomparso il riferimento esplicito alla «neutralità di CO2», invisa a grandi inquinatori come Cina, India e i Paesi produttori di gas e petrolio. Perché questo accada bisognerà comunque arrivare a un'emissione di 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nel 2030, mentre gli attuali impegni presi da 186 delle 196 “parti” corrispondono a 55 miliardi di tonnellate. Circa 80 Paesi sembrano già pronti a riconsiderare rapidamente i loro programmi.

Controlli e verifiche
Nel 2018 gli esperti indipendenti dell'Onu diranno qual è il livello di emissioni compatibile con l'obiettivo di 1,5 gradi. Nel 2023 si farà una prima verifica sui risultati raggiunti da ogni Paese. E ci sarà quindi una verifica ogni cinque anni, in occasione della quale si faranno delle correzioni al rialzo degli sforzi da compiere per rimanere sulla retta via. Sforzi che rimarranno comunque volontari e non «giuridicamente vincolanti», come invece le altre parti dell'accordo, per aggirare la possibile opposizione di alcuni Paesi (Stati Uniti in testa). I Paesi più poveri saranno esentati da queste verifiche.

Ripartizione e differenziazione degli impegni
I Paesi sviluppati, in nome della loro responsabilità storica di grandi inquinatori, sono chiamati a realizzare la gran parte degli sforzi. Il compromesso prevede che ognuno farà «in base alle diverse circostanze nazionali». Per evitare che gli emergenti e soprattutto i Paesi in via di sviluppo debbano rinunciare alla loro crescita economica in nome della «decarbonizzazione». In caso contrario avrebbero respinto l'accordo.

Il fondo da 100 miliardi
Si trova in un allegato dell'accordo. Si stabilisce che i 100 miliardi di dollari che i Paesi sviluppati dovranno destinare a emergenti e Pvs ogni anno all'orizzonte 2020 - per aiutarli a evolvere verso un'economia sostenibile - rappresentano un finanziamento base da incrementare nel periodo successivo. Un'implementazione di questo impegno è prevista per il 2025.

Compensazioni per danni ambientali
Anche questo punto è stato stralciato dall'accordo ed è in un allegato. Vi si stabilisce che i Paesi vittime di catastrofi ambientali non potranno chiedere alcun indennizzo ai Paesi sviluppati.

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