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Addio al regista polacco Andrzej Wajda

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Addio al regista polacco Andrzej Wajda

Il lutto per la morte di Andrzej Wajda, a novant'anni, non è soltanto quello per un grande regista cinematografico, uno dei più grandi nomi della storia di quest'arte; è il lutto per la morte di uno dei massimi artisti europei del secolo ventesimo, uno dei suoi testimoni più acuti e profondi, coraggiosi e rigorosi. Figlio di un ufficiale massacrato dai sovietici a Katyn (e di questo poté parlare solo molto tardi, dedicando a quella tragedia un ultimo capolavoro, insieme romanzo e storia, commozione e giudizio; un film, va detto, che venne accolto con colpevole freddezza dalla nostra critica), i suoi primi film, girati intorno ai trent'anni, alla metà degli anni cinquanta e ancora in piena guerra fredda, osavano dare una visione disperata della resistenza al nazismo, e narrarla con un linguaggio tutt'altro che neorealistico (secondo le convenzioni del tempo), bensì espressionista e barocco (I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti e il meno noto ma non meno forte Samson sulla shoah).

Cantò subito dopo le speranze e la vitalità della generazione del Sessanta, con il suo attore-feticcio Cybulski, una sorta di James Dean polacco bensì più intelligente, per dedicarsi in seguito, anche per sfuggire i rigori della censura, all'illustrazione dei capolavori della cultura polacca (Ceneri, Le nozze, Danton, il contemporaneo La classe morta di Tadeusz Kantor per la tv, e considerando giustamente La linea d'ombra come opera polacca; spostandosi volentieri in altri film su Dostoevskij e Bulgakov …), ma giostrando abilmente con l'epoca senza mai rinunciare a un approfondimento tematico e linguistico personale, dentro la grande storia della cultura europea, mossa tra l'oriente dei grandi russi e l'occidente dei massimi interpreti dei mutamenti culturali profondi cagionati da due criminali guerre mondiali e da una borghesia che aveva prodotto la nascita di orride dittature. Appena gli fu possibile, eccolo di nuovo alle prese con la storia contemporanea, e dare con L'uomo di marmo e L'uomo di ferro due dei pochi grandi film sulla tormentata storia della classe operaia stretta nella morsa dello stalinismo, ma aperta alla grande avventura ribelle di Solidarnosc.

Ancora un capolavoro, Dottor Korczak, gli permise di tornare sugli anni della guerra e sulla shoah, raccontando l'esperienza del grande pedagogista all'interno del muro di Varsavia, e la sua fine, in compagnia dei suoi piccoli orfani, a Treblinka. In questo film, come in molti altri d'ambientazione storica, la maestria del regista fa sembrare documentario ciò che è ricostruzione accanita e precisa, un segreto che non appartiene invero a molti registi (il confronto con Il pianista del suo allievo Polanski è in questo senso schiacciante, nonostante i grandi meriti del secondo).

Inarrestabile, generoso maestro di molti, presenza attiva talora disturbante nei confronti del potere ma abile nello schivarne le ire grazie alla sua fama internazionale, Wajda ha sempre saputo molto bene quel che poteva e doveva fare, e ha attraversato il secolo da vincitore e non da sconfitto, riuscendo a dire tutto quel che aveva da dire, o quasi, sulla sua patria, sull'Europa, sul cinema, sulla Storia.

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