Jamie Dimon è pronto a lasciare a casa il primo trader di JPMorgan scoperto a fare trading su bitcoin: «È contro le nostre regole, oltre che stupido!», ha affermato l’altro giorno. E ha rincarato la dose: quella della criptovaluta più famosa del mondo è una vera e propria «truffa» che ha dato vita a «una bolla finanziaria peggiore di quella dei tulipani, che non andrà a finire bene».
C’è chi ha ironizzato alle parole del banchiere di Wall Street, ricordando il ruolo della grande finanza nella storia delle bolle speculative. Ma ieri le sue parole sono riecheggiate quando da Pechino è partito l’attacco che ha mandato in altalena le quotazioni del bitcoin. In realtà era da inizio settembre che il criptomercato era estremamente nervoso. E le parole di Dimon non avevano fatto nulla per tranquillizzarlo. La linea dura adottata dalla Cina che impedisce ai cinesi di acquistare e vendere criptovalute ha accentuato lo scivolone delle quotazioni in una giornata che ha confermato una volta di più che non è un mercato per cuori deboli con oscillazioni quotidiane che arrivano anche al 20%.
Lo stesso Ceo di JPMorgan si scaglia contro la presunta bolla, ma poi sa che tutte le banche di Wall Street stanno seguendo da vicino lo sviluppo della ricerca sulla blockchain, la tecnologia del registro distribuito che è alla base del bitcoin. In un mercato senza regole gli investitori si fanno prendere la mano guardando ai guadagni di una valuta che in dodici mesi è passata da 600 dollari fino a un picco di 5.000 a inizio settembre (altre criptovalute hanno fatto ancora meglio). Oppure partendo alla caccia della nuova Google tramite le Ico, le offerte iniziali di valute usate per finanziare nuovi business.
Ma anche la grande finanza, costretta a tenersi fuori da un mercato non ufficiale e ad altissimo rischio, non smette di guardare al mondo delle valute digitali. Proprio nella primavera di quest’anno JPMorgan aveva lasciato il consorzio R3, l’ambizioso laboratorio globale creato dalle grandi banche di Wall Street per mettere a punto una blockchain non basata su bitcoin. Pochi mesi prima anche Goldman Sachs e Morgan Stanley se n’erano andate, ma non perché non interessate al progetto. Anzi. Se ne sono andate per conto loro, per creare una blockchain che fosse “più innovativa” rispetto alle concorrenti. Così JPMorgan è entrata allo stesso tempo nella Enterprise Ethereum Alliance, il consorzio per lo svilluppo di ethereum, la criptovaluta creata per gli smart contract, e in Hyperledger, il progetto che ruota attorno alla Linux Foundation. Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno scelto di andare per la loro strada fidandosi solo di iniziative che sono in grado di controllare.
Il mondo innovativo delle criptovalute è d’altra parte abituato a questo doppio binario, in continua oscillazione tra un mondo senza regole fatto di eccessi speculativi e di utilizzi indiscriminati ai limiti dell’illegalità e un volto libertario di finanza svincolata dai grandi poteri e delle sue applicazioni da cui potrebbe nascere davvero la prossima Google.
Così le facce di Paris Hilton o del pugile Floyd Mayweather alla vigilia dell’incontro del secolo con Conor McGregor prestati a campagne mediatiche per il lancio di offerte iniziali di criptovalute lasciano trasparire un mondo dove si nascondono vere e proprie truffe. Ma ci sono anche Ico cui partecipano nomi di primo piano del venture capital della Silicon Valley: Sequoia Capital e Andreessen Horowitz hanno partecipato al lancio di Filecoin, una criptovaluta lanciata per finanziare un sistema distribuito di storage, senza padrone. Un progetto che andrebbe a fare concorrenza ai servizi cloud da cui Amazon o Google contano per rimpinguare i loro profitti trimestrali.
Perfino uno stato, l’Estonia, sta pensando a una sua criptovaluta, l’estcoin, per finanziare la sua e-residency, la cittadinanza digitale che permette di aprire società Ue anche a chi in Estonia non ha mai messo piede. Ovviamente tramite una offerta di valuta, che poi non è altro che un crowdfunding senza piattaforma.
Le Banche centrali e le authority di tutto il mondo studiano come affrontare questo mondo e non sono arrivate ad alcuna conclusione definita per regolamentare un mondo nato al di fuori da qualsiasi regola, come quello del bitcoin, la moneta che prescinde da qualsiasi autorità di emissione.
La stessa Cina non ha emesso nessun documento ufficiale per mettere al bando le Ico, una settimana fa, e per intimare, ieri, alle piattaforme locali di bloccare gli scambi di valute virtuali da parte di residenti cinesi: solo raccomandazioni verbali e una lettera su carta bianca da parte dell’ufficio per i rischi finanziari online. Come se ci fosse una certa ritrosia a parlare ufficialmente di bitcoin o di valute digitali. Tanto che due delle piattforme più grandi hanno proseguito l’operatività - con ogni probabilità la sospenderanno nelle prossime ore - mentre il colosso Btc China ha annunciato il blocco per fine mese lasciando liberi i clienti di ritirare i conti. Non è un mistero che i cinesi abbiano usato l’anonimato del bitcoin per esportare capitali giocando contro lo yuan. Ma gli squilibri finanziari non si addicono a un periodo delicato come la vigilia del Congresso del partito comunista cinese in arrivo.
Non è la prima volta che la Cina stringe i freni sulle criptovalute. Già nel dicembre 2013 Pechino aveva ammonito le istituzioni finanziarie di tenersi alla larga dal bitcoin. Allora le quotazioni stavano sfidando la soglia dei mille dollari. In pochi giorni crollarono a 600, dando il via a un periodo ad altissima volatilità. Solo quest’anno le quotazioni sono riuscite a salire sopra quota mille.
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