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    Dossier | N. 8 articoli Migranti e sbarchi

    Migranti, la sfida per l’Ue è andare oltre il regolamento di Dublino

    La campagna elettorale per le Europee del 2019 si è giocata, in larga parte, su un’emergenza smentita dai numeri: la «invasione» di migranti sulle coste europee. Nonostante l’enfasi sugli sbarchi, incluso l’ultimo caso Sea Watch, il tempo degli allarmi è sempre più lontano. A quattro anni dalla crisi migratoria del 2015, quando le frontiere Ue hanno vacillato sotto la pressione dei flussi in ingresso da Africa e Medio Oriente, gli sbarchi sulle coste meridionali del Continente si sono ridimensionati fino a numeri che farebbero pensare a una risoluzione sostanziale del problema. Secondo dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), al 16 maggio 2019 si contavano un totale di 23.079 arrivi in Europa:  18.364 via mare e 4.715 via terra, anche attraverso rotte che sfuggono all’immaginario legato alla «guerra agli sbarchi» ingaggiata in Italia, Grecia e Spagna.

    Valori infinitesimali rispetto al milione di ingressi raggiunto quattro anni fa, quando la stessa Oim stimava un afflusso di oltre un milione di migranti (e oltre 3.770 vittime) nell’arco di 12 mesi. Una marea umana proveniente soprattutto dalla Siria, allora lacerata dalla guerra e terra di origine di almeno il 50% dei rifugiati, seguita da rifugiati afghani (il 20%), iracheni (il 7%) e altre nazionalità. Anche in Italia, meta di oltre 150mila arrivi dal Mediterraneo nel 2015, le cifre si sono assottigliate fino a sfiorare l’irrilevanza: al 20 maggio 2019 si contano 1.265 migranti sbarcati sulle coste italiane, in caduta libera rispetto ai 10.659 dello stesso periodo del 2017 e ai 48.008 del 2017. Eppure la difesa delle frontiere europee è un argomento che infiamma gli animi e resta al centro dei manifesti politici dei gruppi che varcheranno le soglie dell’Eurocamera dopo il voto di fine maggio.

    In parte incide l’armamentario propagandistico dei cosiddetti sovranisti, capaci di alimentare il nervosismo sulla «invasione» di migranti anche in assenza di numeri vistosi come quelli di un quadriennio fa. La temperatura dello scontro si è alzata fino a minacciare la tenuta del sistema Schengen, l’abbattimento di confini interni alla Ue che garantisce il pilastro della libera circolazione di persone. In parte la questione è, ovviamente, più complicata di quanto appaia da un confronto puramente quantitativo fra gli arrivi del 2015 e quelli di oggi. Prima di tutto perché gli sbarchi e arrivi via terra hanno innescato migrazioni secondarie, l’attraversamento dei confini da un paese Ue all’altro che provoca frizioni fra gli Stati membri e fa invocare ad alcuni una riforma radicale del sistema di accoglienza Ue.

    La grande incompiuta: la riforma di Dublino
    Iniziando dai problemi reali, quelli «a prova di retorica», le istituzioni Ue degli ultimi cinque anni non sono riuscite a rivedere l’impianto che disciplina la gestione dei migranti in Europa: il regolamento di Dublino, il testo che sancisce quali paesi debbano prendere a carico i migranti in arrivo e come funzioni la loro eventuale ridistribuzione fra i principali paesi della Unione europea. Tecnicamente si parla del regolamento 604/2013, meglio noto come Dublino III, a sua volta erede di un testo (343/2003) nato per recepire la Convenzione di Dublino, trattato internazionale firmato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997. Il provvedimento «stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide». Secondo lo schema attuale, il migrante deve inoltrare la sua richiesta di asilo nel paese di primo sbarco. Un criterio che penalizza i paesi più esposti sulle coste, a partire proprio da Italia, Grecia (meta di sbarco per 800mila migranti nel solo 2015) e Spagna, l’unico dei tre paesi che sta registrando un incremento degli arrivi rispetto agli anni precedenti. Da qui il tentativo di una riforma verso un «Dublino IV», intrapreso nel 2016 e mai andato in porto negli ultimi tre anni. Il principio fondamentale della revisione, a grandi linee, è quello di imporre un meccanismo di ridistribuzione obbligatoria ai paesi che superano una certa soglia di arrivi stimata in rapporto a popolazione e Pil.

    Quando si supera la quota di migranti che può essere accolta in base ai due parametri indicati, scatta la distribuzione ai restanti paesi Ue, con penalità per gli Stati membri che si rifiutano di collaborare. Paesi come l’Italia e la Grecia avrebbero tutti i motivi per sostituire un regolamento che scarica sulle proprie spalle l’asilo dei migranti e, tra l’altro, obbliga i paesi di primo sbarco a «riprendere» i cosiddetti “Dublinanti”: le persone sbarcate in un certo paese e migrate poi in un altro stato membro, sempre nel perimetro della Ue.

    Il Sole 24 Ore ha rilevato che i migranti rispediti in Italia dal resto d’Europa nel 2019 superano quelli sbarcati sulle coste del paese, dato che sgonfia gli entusiasmi del governo in carica sul crollo degli arrivi sotto il loro esecutivo. In teoria il governo gialloverde aveva stabilito, fin dal suo contratto di governo, che il superamento di Dublino sarebbe rientrato fra le sue priorità. Nei fatti i rappresentanti dell’esecutivo hanno contribuito ad affossare il compromesso raggiunto sotto la presidenza bulgara («Condanna i Paesi del Mediterraneo, Italia Spagna, Cipro e Malta, ad essere da soli») per poi alzare bandiera bianca a febbraio 2019. «La proposta di riforma del Regolamento di Dublino - ha ammesso il premier Giuseppe Conte durante una plenaria Strasburgo - non è sostenibile nell’attuale Unione Europea». L’esito è che la revisione del sistema Dublino è slittata alla prossima legislatura. L’obiettivo è rimasto lo stesso che aveva animato la prima proposta di riforma della Commissione: stendere un testo che formalizzasse l’obbligo di una condivisione equa, principio scandidato da doveri di responsabilità (quanti richiedenti asilo vanno accolti, paese per paese) e solidarietà (l’aiuto da fornire ai paesi più esposti e le sanzioni da infliggere a chi si defila).

    Le sfide per l’Eurocamera 2019-2024: andare oltre Dublino
    Elly Schlein, eurodeputata uscente del gruppo dei Socialisti&Democratici e fra le voci più attive per una riforma del regolamento di Dublino, spera che la riforma «non cada nel vuoto» e porti avanti i suoi obiettivi originari:  «Ovvero istituire un sistema automatico e permanente di ricollocamento - dice Schlein - Bisogna valorizzare i legami dei richiedenti asilo e obbligare, al contempo, la solidarietà interna». Dublino a parte, spiega Schlein, l’Europa dovrebbe fissare obiettivi di breve, medio e lungo termine: «Sul breve periodo rinforzare le missioni umanitarie: la criminalizzazione delle Ong è solo fumo negli occhi per coprire l’assenza delle istituzioni nei salvataggi e nei contrasti ai trafficanti - spiega - Sul medio periodo dovremmo armonizzare le norme europee, appunto con la riforma di Dublino. Sul terzo c’è bisogno di creare vie legali d’accesso, ad esempio con i visti umanitari per i rifugiati. Una soluzione che l’Europarlamento aveva votato l’11 dicembre 2018».

    Giuseppe Nesi, professore di diritto internazionale dell’Università di Trento, spiega che l’obiettivo più realistico non è riformare il sistema di Dublino. Ma superarlo del tutto: «È chiaro che sarebbe auspicabile una riforma dell’impianto, ma bisogna considerare la composizione della prossima Eurocamera - spiega - Oltretutto la decisione spetta sempre agli Stati membri, e sarà difficile mettere d’accordo quelli che ci sono ora».
    Come si va oltre i vecchi meccanismi del trattato? Una fra le ipotesi potrebbe essere quella di ampliare il raggio d’azione delle politiche migratorie, evitando il dualismo che si è venuto creare nella retorica politica fra richiedenti asilo (da accogliere) e migranti economici (da limitare). Ad esempio, spiega Nesi, il Parlamento potrebbe lavorare «su soluzioni come i corridoi umanitari e favorire l’afflusso regolamentato di migranti, cercando di capire sia le esigenze di chi parte sia quelle dei paesi di destinazione - dice - Bisognerebbe lavorare molto con reti diplomatiche, ad esempio per capire quale forza lavoro potrebbe essere meglio spendibile in determinati paesi europei. Non ci si può ridurre né alla logica della chiusura né a quella della accoglienza indiscriminata».


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