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Per Piëch una rivincita attesa 38 anni

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Mercato e industria

Per Piëch una rivincita attesa 38 anni

  • –di Andrea Malan


Ci ha messo quasi 40 anni, ma alla fine ci è riuscito. Se la vendetta è un piatto che si gusta freddo, nel caso di Ferdinand Piëch si può parlare quasi di un surgelato. Il padre-padrone della Volkswagen potrà fra qualche mese aggiungere alla sua scuderia di marchi anche la Porsche, quella Porsche fondata da suo nonno Ferdinand e che Piëch (azionista insieme ai cugini) tentò invano di arrivare a guidare agli inizi della sua carriera.
Nato a Vienna, Piech si era laureato in ingegneria meccanica a Zurigo con una tesi sullo sviluppo di un motore di Formula Uno, e aveva iniziato nel 1962 a lavorare nell'azienda di famiglia; dopo nove anni era in consiglio d'amministrazione come responsabile della produzione. Nel 1971, però, la famiglia (guidata allora da sua madre Louise e dallo zio Ferry Porsche) decise che i membri non dovevano più avere ruoli operativi in azienda. Piëch, che non aveva intenzione di limitarsi a fare l'azionista, non digerì mai la decisione. «He's a car guy» direbbero gli americani, con quell'espressione che indica chi, in un'azienda automobilistica, ha la benzina nelle vene. Bob Lutz, tornato dalla pensione a 77 anni per rilanciare General Motors, è un car guy. Sergio Marchionne è un grande manager ma non un car guy: potrebbe andare a dirigere una banca svizzera senza stupire nessuno.
Piëch ha un ego smisurato corredato da notevoli doti: freddissimo negoziatore (ne ha dato ampia prova nel dossier Porsche); abile nel trattare con i sindacati, dote fondamentale in un Paese come la Germania; astuto nel gestire i mezzi di comunicazione: a metà maggio, in occasione della presentazione della nuova Volkswagen Polo, annuncia in diretta che «Volkswagen non risolverà il problema dei debiti di Porsche» di cui dà la colpa a Wiedeking e al direttore finanziario Haerter.
Per coltivare la sua passione e cercare al tempo stesso una rivalsa, Piëch entra nel 1972 in Audi e sale fino al vertice, che raggiunge nel 1983. C'è lui dietro la strategia che ha portato la casa di Ingolstadt a competere con Bmw e Mercedes. Nel 1993 passa alla guida dell'intero gruppo Volkswagen. Una prima rivincita, sia pure parziale: era stato proprio nonno Ferdinand a inventare per Hitler la "Volkswagen", ovvero il Maggiolino. Piëch rimane per 9 anni al vertice del consiglio di gestione – in pratica, è amministratore delegato. Come top manager sviluppa la strategia delle piattaforme – che permette risparmi colossali sui costi – e avvia la settimana lavorativa di 4 giorni, nata a metà degli anni 90 per combattere la crisi delle vendite. Il direttore del personale di Piëch, Peter Hartz, trasformerà il nuovo modello di relazioni sindacali nel progetto di riforme del Governo di Gerhard Schroeder. Le relazioni diventano però a volte un po' troppo incestuose, e Hartz viene travolto dallo scandalo dei compensi d'oro al capo del consiglio di fabbrica.
Lo scandalo sfiora anche Piëch, che supera però indenne la bufera. Nel 2002, a 65 anni di età, lascia la carica a Bernd Pischetsrieder per assumere quella, meno operativa, di presidente del consiglio di sorveglianza. «Il vecchio leone è andato in pensione» pensano, dicono e scrivono in molti. Ma si sbagliano: il leone conserva tutto il potere di prima. L'erede Pischetsrieder se ne accorge dopo qualche anno, quando di fronte a un piano di ristrutturazione troppo drastico Piech si schiera (di nuovo) con i sindacati e lo licenzia, mettendo al suo posto il fedelissimo Martin Winterkorn. Uno dei primi a fare le spese delle ire di Piech fu Herbert Demel, l'ex numero uno di Fiat Auto: succeduto a Piëch alla guida dell'Audi, pagò i primi disaccordi con il capo con l'esilio in Brasile. Adesso Piëch può coronare il suo sogno: l'azienda di famiglia e quella del cuore si riuniranno in un colosso che punta a scalzare Toyota dal vertice mondiale. Per chiudere l'operazione ci vorrà ancora qualche tempo, ma una cosa è certa: il vecchio Ferdinand non ha nessuna intenzione di andare in pensione.

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