NEW YORK - Fiat Chrysler potrebbe essere costretta a chiudere gli stabilimenti in Messico se il presidente Usa Donald Trump dovesse tener fede alla promessa di applicare pesanti dazi sui veicoli importati dal Paese sudamericano. A dichiararlo è stato il ceo Sergio Marchionne, a margine del Detroit Motor Show. «Se verranno imposti dei dazi e se questi saranno abbastanza alti – ha detto il manager – è possibile che la produzione di qualsiasi cosa in Messico diventi antieconomica e noi dovremmo ritirarci».
Proprio ieri, con un messaggio via Twitter, Trump aveva fatto i complimenti a Fca e Ford per l’impegno a investire e produrre negli Stati Uniti. Con l’obiettivo di mantenere la promessa di riportate posti di lavoro manifatturieri in patria, il presidente eletto ha fatto leva come nessuno sulle nuove tecnologie di Internet: non per affrontare sfide profonde - produttività, innovazione, qualificazione - ma per premere pubblicamente sulla Corporate America, a cominciare dall’auto. Le cui oscillanti fortune a Washington ne evidenziano ancora una volta tanto il valore strategico che simbolico: in pochi anni è passata da emblema del collasso a icona del rilancio e adesso a esempio dei mali della globabilzzazione, del libero scambio e della crisi dei ceti medi e popolari sulla cui rabbia Trump ha costruito la vittoria alle urne.
Il presidente eletto ha dunque aperto non a caso un’aggressiva danza con le case automobilistiche, nazionali e internazionali, sui cui esiti - con le divisioni tra buoni e cattivi - il giudizio non può che rimanere sospeso. Se sulla carta Trump e la sua amministrazione entrante rivendicano infatti successi un rapido esame di quanto finora accaduto invita a ben maggiore cautela. Tutti appaiono finora impegnati soprattutto a gestire o preservare un “capitale” assai particolare, quello politico e d’immagine. Un gioco di specchi a uso e consumo dell’opinione pubblica mentre molte società cercano ancora di prendere a fatica le misure dell’inquilino che tra dieci giorni si insedierà della Casa Bianca.
Andando a ritroso ecco così che Fca ha svelato in questi giorni da Detroit rafforzamenti di impianti Usa, pur precisando che erano già iscritti nei piani. E Fca non era finita finora nel mirino di Trump: Toyota, Ford e General Motors hanno dovuto fare i conti con interrogativi decisamente più pressanti, chiamate in causa in prima persona dal presidente eletto. La casa giapponese è stato il primo automaker internazionale salito sul banco degli imputati: Trump le ha rinfacciato di voler costruire un nuovo impianto in Messico per poi vendere i modelli Corolla lì assemblati negli Stati Uniti e ha detto “no way”, minacciando tariffe del 35% . L’azienda e il governo di Tokio si sono difesi, invocando di essere ottimi “cittadini aziendali” in America. Ma che la realtà rischi in simili duelli di prendere un posto di secondo piano lo ricorda l’errore fattuale commesso da Trump: ha twittato che l’impianto sarebbe stato a Baja, invece è a Guanajuato, e semmai riceverà produzione che oggi avviene già oltre-confine, in Canada.
Il caso di Ford è simile, ma la casa ha cercato di giocare al rialzo dopo essere stata a lungo la più tartassata da Trump: accusata di voler costruire un nuovo impianto messicano da 1,6 miliardi, ha annunciato di aver cancellato quell’impegno e di aver deciso di spendere in casa invece 700 milioni per potenziare produzione e ricerca. A ben guardare, però, la decisione non appare eccessivamente coraggiosa: il nuovo stabilimento era stato concepito per vetture di piccola cilidrata che oggi hanno subito forti declini delle vendite. Non serviva più e la produzione necessaria verrà semplicemente dirottata verso un’esistente fabbrica messicana. L’investimento negli Usa è separato e programmato da mesi, dedicato a veicoli puliti e ad alta tecnologia sui quali i protagonisti di Detroit hanno ingaggiato accesi duelli. E Gm? Trump l’ha accusata di importare modelli Cruze dal Messico e le ha intimato di costruirli in Ohio o di pagare una maxi-tassa al confine. Una tempesta in un bicchier d’acqua: Gm sforna in Messico pochissimi Cruze hatchback per il mercato statunitense - 4.500 l’anno scorso - contro ad esempio 80.000 Chevy crossover. Il ceo dell’azienda, Mary Barra, rimane inoltre nel Comitato strategico di Trump sul lavoro. La partita d’immagine, insomma, è in pieno svolgimento e potrebbe dare adito a vincitori e vinti. Ma quella industriale - il presidente uscente Barack Obama aveva piuttosto dato vita a numerosi centri pubblico-privati per stimolare il manifatturiero hi-tech - appare ancora tutta da giocare, per le imprese e la Casa Bianca.
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