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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2013 alle ore 17:15.
L'ultima modifica è del 18 dicembre 2013 alle ore 18:15.

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Andrea Pezzi (Olycom)Andrea Pezzi (Olycom)

Obiezione. Commissione Ue e Ocse sono al lavoro per definire un sistema di regole nuove. E poi c'è la delicatissima partita del Trattato di libero scambio tra Europa e USA (Ttip). Perché l'Italia dovrebbe rischiare la fuga in avanti? «Per un motivo fondamentale. A Bruxelles le lobby sono molto forti e lavorano bene. Nella famosa direttiva 112 del 2006, modificata nel 2008, è stata inserita una norma, all'articolo 59 bis, che consentirebbe agli Stati membri di pretendere il pagamento delle tasse là dove vengono erogati i servizi. L'entrata in vigore è fissata a gennaio 2015. I miei advisor mi dicono che sono attese delle proroghe. Dico di più. Google a Bruxelles ha un palazzo a pochi metri dalla sedi di Commissione e Parlamento Ue, con 450 dipendenti. Uno dice, ne hai 80 in Italia e sei volte tanto a Bruxelles. Servirà mica per fare interdizione? Chi mi assicura, quindi, che la nuova direttiva sull'Iva non venga rinviata al 2018? La questione più seria, però, è un'altra e non ne parla nessuno».

Sostiene Pezzi che l'avvento del digitale ha rivoluzionato il modo di comprare e vendere pubblicità. «Tutto si gestisce facendo accordi quadro di trading. Ormai si possono acquistare banner impression su tutti i siti d'Europa attraverso piattaforme informatiche note come Dsp (Demand-side platform). In questo modo noi non ce ne accorgiamo, ma scompare, pur con l'aumento del budget pubblicitario nel digitale, la necessità, per dire, di avere un country manager e perfino un mercato nazionale».

In Italia il mercato pubblicitario è passato complessivamente dai 10 miliardi del 2008 ai 7,5 miliardi del 2012 (sono 5,2, secondo Nielsen Media, i miliardi nei primi 10 mesi 2013 contro i 6 del 2012, ndr). «Entro i prossimi cinque anni, lo dico, saremo a 4 miliardi. Il paradosso è che la torta pubblicitaria globale, invece cresce (sempre Nielsen Media: +3,3% nel 2012, ndr) ma ormai buona parte dei giochi si fanno nelle due capitali mondiali del settore, New York e Londra».

Ma c'è la crisi economica, che imperversa dal 2008. «Non è la crisi che determina il calo. E il problema non è nemmeno solo l'elusione fiscale, i meccanismi noti come Double Irish e Dutch Sandwich (ecco come funzionano). Il punto è che è in corso una migrazione del mercato pubblicitario sul Web. Fino a ieri i player del largo consumo si muovevano sul mercato "fisico" dell'advertising in Italia per vendere i loro prodotti qui. Ora, fate conto che invece un signore a Londra e uno a New York abbiamo attaccato un idrovora al" lago" della pubblicità italiana e lo stiano prosciugando. I soldi gradualmente non vedranno neanche più l'Italia, anche se la pubblicità online andrà aumentando. Chiaro? Il fenomeno si chiama Programmatic buying ed è in enorme crescita (guarda l'infografica). Oggi rappresenta già il 15-20% del totale, ma il futuro della pubblicità passa tutto di qui».

Come funziona? Gli inserzionisti si affidano alle loro agenzie, i centri media, che pianificano e gestiscono la pubblicità. Queste ultime hanno dei trading desk che comprano a stock pubblicità e la rivendono ai clienti dei centri media. I trading desk utilizzano piattaforme informatiche (Dsp) spesso basate in paradisi fiscali. Queste razionalizzano le disponibilità di pubblicità online disponibile sul mercato affinché si possa comprare in asta al prezzo migliore. Tutto rigorosamente in tempo reale. A loro volta le Dsp dialogano con altre piattaforme, le Ssp (Supply-side platform), a loro volta in contatto con le concessionarie pubblicitarie e gli editori».

In questa rete di passaggi l'Italia alla fine vede peanuts, noccioline. «Internet è una fetta del 5% del totale della pubblicità in Italia, ma una buona parte già non si vede. Con il Programmatic buying da un valore 10 di partenza della "torta" al massimo qui arriva 4. Se per ipotesi le concessionarie decidessero di trasferirsi all'estero per adeguarsi alle novità nemmeno quel 4 arriverebbe più e addio aziende e posti di lavoro. Dico queste cose perché io di mestiere negozio contratti. Se me ne andassi, ripeto, finirei anche per guadagnarci».

Resta il fatto che la web -tax per molti è pura follia. Finirà per fare scappare aziende e investitori esteri, dicono. «Non direi. La proposta Boccia dice semplicemente: care aziende, se usate l'infrastruttura di rete italiana siete una stabile organizzazione, quindi pagate le tasse in Italia. E poi c'è la partita Iva obbligatoria, con cui si vuole mettere fine all'elusione. Questo è l'unico modo per non fare prosciugare il lago, così che non muoiano aziende e non si brucino posti di lavoro, ovvero esseri umani, in Italia. Ma vale per tutta l'Europa, che si attarda in discussioni sulle regole in cui ciascuno, dalla Commissione Ue alla Francia alla Germania all'Italia affronta il problema in un modo diverso. Così si finisce sicuramente per perdere, finché esistono Stati e bilanci nazionali».

Ma può l'Italia da sola anticipare, magari superare il dibattito internazionale?« Lo deve aprire. Questa deve essere un'enorme pietra miliare per iniziare un ragionamento. In molti in Italia vogliono spegnere il fuoco della web-tax e poi andare da Google e fare parcella. Non capiscono che questa partita ha dimensioni gigantesche. E lo dice uno che la può giocare anche dalla parte di Google. Io adoro il digitale, grazie al quale il mondo è anche molto migliore di quello che era. Potrei essere qui a parlare della necessaria distruzione di questa legge, ma non lo faccio perché sarebbe la rovina del mio Paese. Non si può essere imprenditori e dare fuoco al proprio mercato».

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