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Giuristi e magistrati bocciano il reato di voto di scambio: così non…

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mafia e politica

Giuristi e magistrati bocciano il reato di voto di scambio: così non funziona

Un laboratorio aperto su cui più avanti sarà possibile fare le verifiche. Il laboratorio di cui si parla è l’articolo 416 ter del Codice penale nella sua nuova versione approvata quasi un anno fa. La definizione è di Giovanni Fiandaca, docente di Diritto penale all’Università di Palermo che è intervenuto al convegno che si è tenuto ieri e oggi nell’Aula Magna del tribunale di Palermo e organizzato dalla Scuola superiore di magistratura.

Due giorni di approfondimento dedicati a un tema come quello dello scambio elettorale politico-mafioso e della contiguità alla mafia in cui sono emerse le criticità nell’applicazione della norma ma anche le difficoltà, oggi, di definire il concetto di contiguità in un momento in cui le mafie sono cambiate. E così il 416 ter è finito col diventare, dice il consigliere del Csm Piergiorgio Morosini che è stato a lungo Gip a Palermo, «una norma bandiera perché oggi siamo di fronte a sistemi criminali a partecipazione mafiosa in cui il politico c’è sempre. Il sistema a partecipazione criminale è un sistema più ampio al cui interno ci sono politici, imprenditori, professionisti e in cui il mafioso fa da garante. Tutta questa concentrazione sul patto elettorale politico-mafioso può addirittura essere inutile. Resta il fatto che la norma è utile ed è giusto che vi sia».

Ma rischia concretamente di avere, sembra di capire, un ruolo veramente marginale perché, tra l’altro, il 416 ter, pensato proprio per colpire l’area di contiguità, «è una fattispecie nata male - spiega Fiandaca - e si può dire che oggi non è un capolavoro penalistico per tante ragioni. Certo è meglio di prima ma, del resto, il Parlamento non è in grado di legiferare a regola d'arte: il livello tecnico- professionale del legislatore non è dei migliori. E dire che nelle commissioni spesso lavorano anche magistrati ed ex magistrati. E va anche detto che nel tempo si è creato un groviglio di sovrapposizioni normative pressoché inestricabili e purtroppo la conseguenza è un’alta discrezionalità giudiziaria».

Con alcune patologie che, secondo Fiandaca, sono evidenti e riguardano i criteri di tipicità, riserva di legge e divieto di analogia: «Ho l’impressione - ha detto il giurista - che questi principi non siano più avvertiti con il pathos che meritano». Un punto critico riguarda per esempio la punibilità del procacciatore, perché in questo caso si rischia il “ne bis in idem” visto che il partecipe è già punito perché responsabile di altri reati. Ma c’è anche, spiega l’avvocato Giovanni Di Benedetto, un problema che riguarda la prova del reato di scambio elettorale politico-mafioso. 

«Che certo può essere risolto solo se il candidato che chiede voti ha chiaro che in quel modo sta mobilitando l’organizzazione criminale», dice Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’Università di Palermo. Un caso concreto di possibile applicazione della norma lo racconta Michele Prestipino, oggi procuratore aggiunto della Direzione distrettuale a Roma e in passato prima a Palermo e poi a Reggio Calabria. E proprio dall’esperienza reggina viene il racconto di un politico che si reca a casa di Giuseppe Pelle, in quel momento capo della ’ndrangheta, per chiedere voti e ne riceve in cambio la richiesta a impegnarsi per il «bene comune», ovvero per aiutare le ’ndrine. In quel momento, era il 2010, non è stato possibile utilizzare il 416 ter perché non era prevista la punibilità per la dazione di altre utilità diverse dal denaro.

Ma c’è chi propone una strada diversa nel contrasto, una via innovativa nel solco di norme esistenti. Come l’uso delle misure di prevenzione personale, perché a volte è davvero difficile riuscire a trovare le prove: « A Milano - dice Paolo Storari, della Dda meneghina - abbiamo una decina di casi. E abbiamo riscontrato che la controprestazione non è mai in denaro ma sempre con altre utilità; le modalità con cui sono procacciati i voti non sono riconducibili ad azioni intimidatorie; l’iniziativa parte sempre dal politico, mai dal mafioso. Allora, siccome non sempre è possibile provare un comportamento contiguo ma ci sono tracce di rapporti tra il politico e il mafioso, è possibile pensare alle misure di prevenzione personale. Se provassimo a pensare al politico contiguo come socialmente pericoloso potremmo chiedere una misura e un politico sorvegliato speciale non sarà certo candidato». Strada innovativa che ha già dato risultati a Milano nei confronti di professionisti collusi.

Che vi siano difficoltà sul fronte dello scambio elettorale politico-mafioso lo testimonia il capo della Direzione nazionale antimafia Franco Roberti: «Attività sul 416 ter ne vedo pochissima, vedo un grande lavoro sulle misure di prevenzione che vanno intensificate ma non sono un’alternativa al processo penale. Va detto che nonostante lo sforzo fatto in questi anni le mafie non sono regredite, anzi, tutt’altro. Ci è sfuggito che le mafie stavano seguendo un’altra strada: integrazione con altre mafie, con comitati d'affari. E poi c’è sempre meno territorialità nell’agire mafioso. Insomma siamo di fronte alla criminalità integrata. Corruzione, evasione fiscale e riciclaggio sono aspetti dell'attività mafiosa». Che le procure spesso non sono attrezzate ad affrontare: «Siamo stati abituati ad avere una concezione mafiocentrica - dice Morosini - e l’organizzazione delle procure riflette questa visione: c'è molto personale sul fronte delle Dda ma oggi è necessario rafforzare i dipartimenti che indagano sui reati della Pubblica amministrazione o sui reati finanziari. Servono nuove specializzazioni perché in Italia siamo abbastanza attrezzati a indagare su reati di sangue ma non c'è una distribuzione omogenea sul territorio di magistrati in grado di indagare su reati della Pa o finanziari, che poi spesso sono reati spia di una presenza criminale più ampia».

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