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Il divorzio breve è legge: sei mesi per dirsi addio

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LA CAMERA APPROVA LA RIFORMA

Il divorzio breve è legge: sei mesi per dirsi addio

Sarà breve, ma non proprio istantaneo. Per dirsi addio e arrivare allo scioglimento del matrimonio dovrà passare un periodo minimo di sei mesi dalla separazione. Periodo che raddoppia a un anno se invece della procedura consensuale si è scelta quella giudiziale.

In ogni caso, un taglio dei tempi non indifferente , visto che ora l’attesa tra la separazione e il divorzio è di tre anni (era addirittura di cinque quando nel 1970 fu approvata la legge 898). Una svolta celebrata ufficialmente anche da un tweet del premier, Matteo Renzi, che sul suo account ha cinguettato «Il divorzio breve è legge. Un altro impegno mantenuto. Avanti, è la #voltabuona».

Sino a ieri, per la richiesta di divorzio, era previsto che fossero trascorsi tre anni dalla comparizione delle parti alla prima udienza di separazione (la cosiddetta udienza presidenziale). Indipendentemente dal fatto che la separazione fosse stata giudiziale o consensuale, purché ovviamente la separazione fosse stata definita (con l’omologa in caso di consensuale e con sentenza passata in giudicato in caso di giudiziale).

La riforma, da applicarsi anche ai giudizi in corso, interviene:

sulla durata di tale termine, accorciandolo a sei mesi in caso di separazione consensuale e a un anno in caso di separazione giudiziale;

sulla sua decorrenza, anticipandola (in caso di separazione consensuale alla data del deposito del ricorso congiunto e, in caso di separazione giudiziale, alla data della notifica all’altro coniuge del ricorso).

La nuova normativa, evidentemente, rappresenta un compromesso rispetto alla richiesta di introdurre, anche nel nostro ordinamento, il divorzio immediato (ovvero senza il previo passaggio attraverso la separazione). Essa infatti, lasciando invariato l’iter separazione-divorzio, si limita a ridurre il termine del cosiddetto ripensamento, previsto ai tempi dell’introduzione della legge sul divorzio (all’inizio era di cinque anni, poi ridotti a tre con la riforma del 1987) al fine di favorire la riconciliazione dei coniugi e scongiurare il divorzio.

Sotto il profilo pratico, in caso di separazioni consensuali, stante l’anticipazione della decorrenza del termine al deposito del ricorso e la sua riduzione a sei mesi, si avrà spesso, se non sempre, una coincidenza tra il momento dell’omologa della separazione e il momento in cui si potrà depositare il ricorso per divorzio. Ciò renderà ancora più incomprensibile l’iter obbligato di separazione e divorzio per il cittadino che vorrà addivenire, a conclusione della propria crisi coniugale, al divorzio. Va considerato che una parte significativa di separati non chiede mai il divorzio; è ragionevole pensare che, per una parte dell’utenza, ciò sia dovuto ai costi e alla complessità dell’iter imposto dalla legge per ottenere il divorzio.

Quanto alle separazioni giudiziali, di durata spesso superiore a un anno, va da sé che la riduzione del termine a un anno comporterà che, a fronte della pronuncia della separazione in corso di causa e del suo passaggio in giudicato, la domanda di divorzio verrà proposta quando sarà ancora in corso la causa di separazione sulle questioni accessorie (affidamento dei figli, mantenimento dei figli e del coniuge eccetera; si parla in questo caso di sentenza non definitiva, perché non definisce il giudizio), il che provocherà una sovrapposizione di giudizi. Il legislatore, conscio di ciò, ha previsto che la causa di divorzio dovrà essere assegnata al giudice della separazione. È evidente tuttavia che tale sovrapposizione di giudizi provocherà, oltre che una congestione dei tribunali, una più complessa gestione dell’iter giudiziale con cui addivenire al divorzio.

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