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Rimane forte il rischio di incertezza

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Diritto

Rimane forte il rischio di incertezza

Nel clima di generale letizia che contraddistingue i parti desiderati, entra oggi in vigore la legge n. 69 del 2015 che si propone di rendere più efficace il contrasto al delitto di falso in bilancio ma che in realtà lascia campo aperto a troppe ambiguità. E noi, meno entusiasti, continuiamo a pensare, si parva licet, con Pedrazzi che «in un terreno tanto delicato, propizio agli equivoci, l’ambiguità è di per sé riprovevole».

La novella sarebbe stata una buona occasione per porre fine al dibattito sulla rilevanza penale delle valutazioni in materia. Prima del 2002 la legge puniva i fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società. Assodato però che quasi tutte le voci del bilancio sono frutto di una qualche valutazione, una interpretazione restrittiva del termine «fatti» avrebbe portato a una sostanziale abrogazione della norma. La tesi prevalente, quindi, era nel senso di ricomprendere nella nozione di «fatti» le valutazioni che si discostavano dai criteri civilistici o da quelli dichiarati.

Nel 2002 diventano punibili i «fatti ancorché oggetto di valutazioni». Sicché, sia pure con un certo qual disordine lessicale e in un contesto normativo assai modificato (si pensi all’introduzione delle soglie), è così chiarito che anche la falsità nel processo valutativo è penalmente rilevante.

Oggi il testo normativo lega il concetto di falsità unicamente ai «fatti materiali rilevanti». L’espressione sembra escludere le valutazione dal perimetro della fattispecie. E ciò tanto più se si pensa che da una parte il termine «valutazioni» è stato eliminato da una disposizione che pure lo prevedeva, dall’altra che nel disegno di legge di riforma inizialmente si attribuiva rilevanza alle «informazioni», concetto capace di ricomprendere appunto le stime.

Questa soluzione, più aderente al dettato normativo, rischia di rendere inapplicabile la fattispecie alle forme più diffuse e più sofisticate di manipolazione dei bilanci. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a una legislazione penale ad altissimo tasso simbolico: in presenza di una richiesta di tutela si ritiene sufficiente introdurre una disposizione purchessia, senza tenere conto di quanto ha espresso il dibattito nel corso di tutti questi anni.

In una simile situazione, già vista nel nostro ordinamento, non è difficile pronosticare due possibili scenari. O si prenderà atto della sostanziale non punibilità del falso in bilancio o ci si dovrà ancora una volta rassegnare all’opera di supplenza della magistratura per far rientrare nella fattispecie quelle condotte che, per qualità e quantità, statisticamente sono più lesive degli interessi dei soci, dei creditori e in generale del mercato.

Percorrere questa strada, obiettivamente più capace di andare incontro a corrette esigenze di tutela del bene giuridico in questione, determinerebbe almeno due risultati poco attraenti. Da un lato si resterebbe in balia di una inevitabile incertezza interpretativa, almeno prima che la giurisprudenza si consolidi in indirizzi precisi, dall'altro si farebbe violenza al tanto caro ma spesso disattesto canone di precisione del precetto penale, che impone chiarezza della norma di condotta da osservare e una netta definizione del confine tra lecito e illecito.

Tutto questo sempre nell’attesa che il legislatore cambi ancora idea, comportandosi come il Maestro Myagi: «dai la cera, togli la cera» e così all’infinito.