Norme & Tributi

Web e fisco, Russo (Ocse): con il Beps project è…

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Intervista aL responsabile Ocse

Web e fisco, Russo (Ocse): con il Beps project è l’inizio di una nuova era

Non sarà contro Google, Facebook, Amazon o Apple, i giganti del web noti per fare enormi profitti limitando (finora legalmente) a cifre risibili il pagamento delle tasse. E non sarà neppure uno schiaffo solo alle altre multinazionali americane, visto che ormai non sono certamente la maggioranza e, soprattutto, le regole varranno per tutti. Eppure, accompagnata da dubbi, un po' di scetticismo scettici e qualche critica, la rivoluzione fiscale annunciata il 5 ottobre dall'Ocse - il progetto Beps e le sue 15 linee di azione - dalla carta sta passando ai fatti. Almeno, questa è l'ambizione.

Dopo due anni di lavoro manca ormai molto poco al summit dei capi di Stato del 14 e 15 novembre, quando, grazie all'ok già assicurato dall'ultimo G-20 a Lima, si procederà alla fase più operativa. L'applicazione delle nuove regole, certo, richiederà tempo per la piena implementazione: si prevede fino al 2020. Anche se per alcuni aspetti, come il transfer pricing, (tradotto: pratica attraverso cui una società con sede in Paese a fiscalità ordinaria vende beni a una filiale a un prezzo più basso di quello poi fissato sul mercato e in questo modo paga le tasse - poche - nel paradiso) si partirà subito. 

Il mastodontico progetto Beps (l'acronimo sta per Base Erosion and Profit Shifting, ovvero erosione di base imponibile e trasferimento di utili, ovviamente in paradisi fiscali o Paesi più teneri con chi elude) è stato coordinato da Raffaele Russo, membro senior del Centro per le politiche fiscali e dell'amministrazione dell'istituzione parigina. Russo ha un passato da avvocato con master a Leiden, Olanda, Paese che si è fatto un nome in fatto di tasse leggere per le multinazionali. Con il Sole 24 Ore ha chiarito alcuni degli aspetti più controversi della grande riforma fiscale globale. A cominciare dal fatto che, riassumiamo, non è accanimento quello contro i giganti dell'economia digitale di cui tanto si è discusso negli ultimi anni, quanto piuttosto ciò che semplicemente non poteva più essere rinviato.

La digital economy è l'economia, è indistinguibile dal resto dell'economia e la permea, dite voi dell'Ocse. E allora perché si parla di azioni sull'economia digitale? Ce n'era davvero bisogno?

Si parla di “azione” sull’economia digitale perché, se è vero che ormai nessun campo dell’economia moderna può essere distinto dall’economia digitale - l’economia moderna in effetti è digitale - è anche vero che alcune sue caratteristiche, quali la mobilità e il ruolo dei big data, amplificano i problemi BEPS ed allo stesso tempo sollevano per gli Stati nuove e complesse sfide, da un punto di vista direi sistemico. Non soltanto in tema di imposte dirette ma anche di IVA, nei Paesi che hanno questo tipo di imposizione. In altre parole, BEPS riguarda la cosiddetta doppia non-imposizione o lo spostamento artificioso di redditi d’impresa in paesi a fiscalità bassa o nulla. Le sfide sistemiche create dall'economia digitale riguardano invece l’individuazione del Paese titolato a esercitare il prelievo su un determinato reddito prodotto nel Paese stesso, nonché i presupposti ed i meccanismi in base ai quali le imposte sul consumo vadano riscosse.

L'economia digitale ha delle caratteristiche del tutto nuove, per esempio la tendenza a innovare (penso alle piattaforme per i pagamenti o al cloud computing) a ritmi mai visti prima, a creare consumer surplus come mai in passato, ma anche all'oligopolio se non al monopolio. Questo che tipo di sfide pone al Fisco? 

Oltre alla riscossione dell’IVA nel Paese nel quale risiede il consumatore finale, molti citano la crescente possibilità di operare in un Paese senza necessariamente dovere stabilirvi una presenza fisica, e quindi fiscale. Questo è sicuramente un trend, con tendenza ad aumentare nel tempo, anche se non è chiaro quanto sia una tematica attuale. E poi c'è sicuramente il valore ed il ruolo dei big data nei nuovi modelli di business. Infine, altro nodo non da poco è come qualificare da un punto di vista tributario i pagamenti effettuati su transazioni elettroniche, tipo download, cloud, eccetera. ‎

Riassumiamo lo stato delle cose: quali sono i punti più deboli del sistema fiscale a livello globale? Dov'è che l'erosione e l'elusione hanno maggior successo?

Il nocciolo del problema risiede nel fatto che il sistema tributario internazionale non era stato adeguatamente “sincronizzato” con i tempi e con i mutamenti del modo di fare impresa, soprattutto con quelli legati ai repentini sviluppi tecnologici degli ultimi decenni. Inoltre, troppo spesso le norme e le linee guida a livello internazionale sono state concepite ed applicate in modo formale, senza attenzione alla sostanza economica sottostante. Per questo motivo abbiamo “revisionato” le regole sul transfer pricing, per esempio riguardo alla corretta allocazione del reddito derivante dall’assunzione di rischi o dallo sfruttamento di beni immateriali. Il tutto partendo da basi e da criteri ragionevolmente certi, come ad esempio le condizioni pattuite tra diversi soggetti dello stesso gruppo nei relativi accordi giuridici, sempre che, beninteso, gli stessi riflettano la sostanza economica delle attività svolte e non siano di pura facciata. 

Abbiamo anche rivisto le regole alla base dei trattati bilaterali così da introdurre clausole generali e specifiche tese a contrastare l’abuso delle convenzioni e in particolare il treaty shopping. Altre modifiche importanti riguardano il concetto di stabile organizzazione per evitare l’aggiramento delle norme tese a garantire la tassazione in presenza di attività svolte in uno stato da un soggetto non residente. 

Infine, e mi fermo qui perché la lista è lunga e tutte le 15 azioni sono rilevanti, vorrei notare l’importanza dei nuovi obblighi documentali in materia di prezzi di trasferimento, compreso il country-by-country reporting, cioè una “paginetta” nella quale il soggetto multinazionale deve fornire alle amministrazioni dei Paesi nei quali opera, uno spaccato, Paese per Paese, di elementi di attività economica. 

In concreto?

Ad esempio il numero di dipendenti, i beni, i ricavi, il reddito imponibile, e le imposte di cassa e competenza. È ormai posizione condivisa che l’erosione e l’elusione hanno maggior successo in un clima di opacità o, comunque, di mancanza di trasparenza. Con l’attuazione delle misure BEPS, ci si aspetta che questo non accada più.

Quali sono le contromisure più ragionevoli e quali le difficoltà oggettive più serie?

Le contromisure più ragionevoli sono tutte quelle che comportano un cambio di approccio e allo stesso tempo forniscono maggiore certezza e prevedibilità ai contribuenti. L'ostacolo più serio? Arrivare a un accordo globale. Sembrava impossibile solo fino a pochi anni fa. Oggi grazie alla forte e sostenuta volontà politica di agire e di farlo in tempi brevi, ci apprestiamo a vivere una nuova era nella fiscalità internazionale. Non lo dico solo io, lo dicono anche varie ricerche e sondaggi del settore privato. 

Però c'è chi solleva dubbi sul fatto che regole così vincolanti possano essere applicate a un settore così transnazionale. Un esempio concreto: si può dire che produce reddito in Italia e obbligarla a pagare le tasse qui un'impresa che fa software in America, gestisce una piattaforma di vendita da Dublino e vende in Italia senza avere né dipendenti né agenti né strutture? 

La risposta alla sua domanda è assolutamente sì, per quanto riguarda le imposte indirette. Assolutamente no, per quanto riguarda le imposte dirette. Per le imposte dirette sono state sviluppate specifiche opzioni, ma non sono state adottate come standard internazionali. Questo perché ancora non è chiara l’entità del problema. La buona notizia è che il quadro sarà chiaro in pochi anni grazie al country-by-country reporting e alla registrazione semplificata ai fini IVA. Per questo i Paesi hanno deciso di monitorare gli sviluppi futuri così da poter assumere una decisione su queste opzioni nel 2020. E pongo l’accento, di nuovo, sul fatto che tutto ciò non ha a che vedere con la questione BEPS, quanto proprio con il tema della individuazione del Paese titolato ad assoggettare ad imposizione il reddito. 

In altre parole, abbiamo anticipato i tempi per una futura discussione su un tema più ampio e, se fosse ritenuto necessario, saremo pronti a raccogliere questa ulteriore sfida da un punto di vista tecnico. Poi ciò non toglie che i Paesi possano introdurre certe opzioni come normative interne, quindi tese ad applicazione soltanto in assenza di trattati contro la doppia imposizione che predispongano norme diverse, o di abuso, e quindi inapplicabilità degli stessi. In tal caso ricadremmo di nuovo nel campo BEPS e il rapporto finale sull’azione 1 fornisce indicazioni in tal senso.

Lei cita spesso il country-by-country reporting, che prevede nuovi obblighi per le aziende, certamente onerosi. È un intervento invasivo, importante. C'è chi vi accusa di distorcere i modelli organizzativi. Cosa risponde?

Rispondo che leggendo il rapporto, azione 13, si capisce chiaramente che l'intento è assicurare che le amministrazioni abbiano le informazioni necessarie a svolgere il loro lavoro in modo efficiente senza oberare le imprese con costi inutili. Pensi solo a cosa sarebbe successo se non ci fosse stato accordo e dieci o quindici paesi avessero introdotto ognuno il proprio country-by-country reporting richiedendo informazioni diverse, sulla base di modelli diversi. Sarebbe stato un incubo dal punto di vista della compliance.

Un'altra grossa novità del progetto BEPS è il cambiamento radicale dell'applicazione dell'Iva, che passerebbe da imposta sul valore aggiunto a imposta sul consumo. Una soluzione che si espone a forti critiche: il valore aggiunto su un iPhone o su un servizio cloud allo stato attuale è quasi esclusivamente una questione made in Usa e invece l'Ocse intende estendere i benefici al sistema fiscale del Paese in cui avvengono le transazioni...

Questo è perché l’IVA, a dispetto del suo nome, è un’imposta sul consumo e oggi abbiamo un consenso globale sul fatto che l’imposta vada versata nel Paese dove risiede il consumatore finale.

Come pensate che si possa suddividere il valore aggiunto per le transazioni sui mercati bilaterali come quello delle carte di credito o dei motori di ricerca o delle piattaforme commerciali o dei social media?

Ad oggi per le imposte dirette ciò viene fatto sulla base delle regole del transfer pricing, che si basano su un’analisi delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. Questo è il quadro di riferimento e, se applicato in modo coerente con la sostanza economica sottostante, il meccanismo in genere funziona in modo appropriato. ‎Allo stesso tempo, opzioni più radicali sono state sviluppate e analizzate da un punto di vista tecnico. 

A proposito di transfer pricing: secondo molti esperti è impossibile evitare che le multinazionali spostino, per esempio, la holding non produttiva in un Paese a basso prelievo...

Eh no, con le nuove linee guida dovranno anche “trasferire” le attività sostanziali che danno luogo ai relativi utili, la cosiddetta sostanza economica, per poter ottenere i risultati fiscali desiderati. Vedremo quanti lo faranno. E soprattutto, quanti saranno in grado di poterlo fare.

In Italia il governo Renzi vorrebbe introdurre una Digital Tax dal 2017, al più tardi. Ha senso muoversi in ordine sparso? E saranno disposti a farlo paesi come Irlanda e Lussemburgo?

L’Italia ha giocato un ruolo fondamentale nel Progetto BEPS, sia dal punto di vista del sostegno politico sia da punto di vista dell’input tecnico nel corso dei negoziati. Quindi non sarei sorpreso se l’Italia, come tutti gli altri Paesi parte del progetto, si allineasse alle conclusioni del Progetto così come sostenute dai ministri delle finanze del G20 a Lima l’8 ottobre e, auspicabilmente, dai Capi di Stato al summit di novembre.

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