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Una voluntary da oltre 4 miliardi

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Lavoro e Previdenza

Una voluntary da oltre 4 miliardi

Il rientro dei capitali è arrivato all’ultimo atto e punta a superare la soglia dei 4 miliardi di gettito per le casse pubbliche. Domani, 30 novembre, scade il termine per le istanze di adesione alla voluntary disclosure: fino a pochi giorni fa erano 90mila, ma il totale sarà probabilmente più alto. Dopodiché, nelle prossime settimane si entrerà nel vivo dell’attività di confronto tra uffici delle Entrate e contribuenti che sarà determinante per il risultato dell’operazione.

Alla chiusura di questa fase di “prenotazione”, Il Sole 24 Ore è tornato a interpellare un campione di operatori – commercialisti, avvocati, notai e dirigenti bancari – per fare il punto. Dall’elaborazione delle loro risposte emerge che gli incassi per lo Stato supereranno la stima precedente di 3,4 miliardi e con ogni probabilità si attesteranno ben al di sopra della soglia dei 4 miliardi.

Il primo dato che balza all’occhio è che i due mesi di proroga per il deposito delle domande rispetto al termine iniziale del 30 settembre non sono stati inutili: anzi, quattro professionisti su dieci dichiarano di aver raccolto una quota supplementare di clienti compresa tra il 10 e il 30 per cento.

I riflessi positivi della proroga – con ogni probabilità – si intravedono anche se si analizzano i motivi che hanno spinto alcuni contribuenti a non avviare l’iter per il rientro dei capitali: l’impossibilità di completare la pratica è stata determinante solo per il 4% degli operatori, e anche la difficoltà di raccogliere la documentazione sull’origine del denaro e sugli investimenti all’estero ha avuto un peso tutto sommato marginale (8%). E questo anche grazie alla collaborazione delle banche e delle società finanziarie estere, che dopo una fase di difficoltà iniziale sembra aver raggiunto nelle scorse settimane un livello più che accettabile: solo un professionista su cinque si è lamentato della bassa disponibilità incontrata oltreconfine.

Piuttosto, le ragioni dietro la rinuncia alla voluntary sono le scelte personali del cliente non precisate al professionista (41%), l’eccessivo costo della procedura in termini di imposte da pagare (35%) e il rischio di implicazioni penali per le ipotesi di reato non coperte dalla disclosure (12%), come ad esempio i reati societari o l’appropriazione indebita. D’altra parte, che la voluntary fosse qualcosa di ben diverso dagli scudi fiscali degli anni scorsi, il Governo e le Entrate l’avevano chiarito da subito, sia in termini di informazioni da fornire al fisco, sia in termini di imposte, sanzioni e interessi da versare.

Ma quanto verseranno gli (ex) evasori che hanno scelto di far emergere i capitali esportati all’estero? Facendo la media delle risposte fornite dai professionisti, per il 60% delle pratiche la somma da versare sarà superiore a 50mila euro, e in questa fascia di contribuenti c’è anche il club ristretto di chi pagherà più di 500mila euro (il 10%). Meno di un cliente su 10, invece, se la caverà con un esborso inferiore a 10mila euro.

Al di là delle imposte versate, sarà interessante capire anche che fine faranno i capitali regolarizzati. Sarà anche vero che molti contribuenti si sono convinti a far emergere il proprio denaro per il timore della stretta sullo scambio di informazioni a livello internazionale, ma il tema del “dopo” resta centrale. Il rimpatrio giuridico – la formula che permette di lasciare il patrimonio fuori dai confini italiani – non sembra essere stata per tutti una soluzione molto convincente. Ma c’è da considerare che lo stesso risultato può essere raggiunto usando lo strumento del waiver e dichiarando i rendimenti delle attività estere: un servizio che diversi intermediari elvetici e sanmarinesi starebbero già prospettando alla propria clientela, o almeno a quella con patrimoni oltre il milione di euro.

In questo scenario, non va sottovalutato il peso che ha la Svizzera in termini di provenienza dei patrimoni: per i professionisti che hanno partecipato al sondaggio il 75% dei capitali arriva dalla Confederazione elvetica, mentre l’Italia e gli altri Paesi Ue non raggiungono il 10 per cento. Anche gli Stati extraeuropei – che siano o no classificati come paradisi fiscali – giocano un ruolo tutto sommato secondario.

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