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Le sorelle Gucci vincono il primo round

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Diritto

Le sorelle Gucci vincono il primo round

  • –Giovanni Parente

La residenza all’estero non è fittizia. La difesa della sorelle Gucci (Allegra e Alessandra) fa brecciapresso la Commissione tributaria di Milano, che ha accolto i ricorsi contro gli atti di accertamento relativi a Irpef, addizionale regionale e RW per i periodi d’imposta dal 2004 al 2010 per un controvalore complessivo di circa 100 milioni di euro. La decisione della Ctp - ha ricordato ieri l’avvocato Giorgio Zanetti, che le ha assistite - è giunta a breve distanza da quella del tribunale penale di Milano che ha assolto con formula piena le due figlie di Maurizio Gucci. Contrariamente alle contestazioni del fisco, la sentenza 392/15/2016 della Ctp di Milano (presidente e relatore Duchi) ha riconosciuto che le due sorelle risultavano stabilmente residenti in un altro Stato. Ad avviso dei giudici, infatti, «l’ufficio non ha considerato la particolare situazione familiare delle ricorrenti connessa allo stato detentivo della madre per tutti i periodi di imposta considerati e, in generale, di tutte le vicende riguardanti la famiglia».

Così la presenza di un immobile in Milano e l’utilizzo da parte dei familiari è stato ritenuto «strumentale e collegabile alla volontà di incontrare la madre in concomitanza con i suoi permessi premio o delle festività». Del resto, l’«ingente patrimonio familiare - si legge in motivazione - giustifica sia il mantenimento di un immobile adibito unicamente a detta necessità, così come la necessaria presenza di un custode per mantenerlo in perfetto stato d’uso e i conseguenti maggiori
consumi e spese».

Ma non è stato l’unico elemento in base al quale i giudici tributari hanno escluso la residenza fittizia all’estero.

Anche l’esistenza di contratti e utenze di vario genere, l’uso di un conto bancario in Italia, la sottoscrizione di polizze assicurative per malattia «non valgono a dimostrare una presunta residenza sul territorio italiano e paiono strettamente legate alle necessità contingenti» e derivanti dallo stato detentivo e alle visite
alla madre.

E, pur essendo «innegabile» che le ricorrenti siano state presenti in Italia «in via saltuaria e di certo non “volontariamente” ma per scelta obbligata da altri fattori», la Commissione mette in evidenza come non vi sia la prova della durata della presenza o almeno «per un tempo sufficiente da far qualificare l’abitazione di Milano come dimora abituale».

Anzi, a detta dei giudici, le due ricorrenti «non sono iscritte nell’Anagrafe della popolazione residente nel territorio italiano, né è stata raggiunta la prova di qualsivoglia elezione di domicilio, inteso come sede principale dei propri affari ed interessi, né della la residenza intesa come dimora abituale». Inoltre tali requisiti avrebbero dovuto essere accertati per la maggior parte dei periodi d’imposta oggetto dei controlli. Prova che, conclude la sentenza, «non è stata fornita dall’ufficio».

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