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Omicidio stradale, i penalisti insorgono. Ma non dicono tutta la…

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la nuova norma

Omicidio stradale, i penalisti insorgono. Ma non dicono tutta la verità

Due giorni di silenzio, poi l'attacco. Secondo i penalisti, la legge sull'omicidio stradale approvata l'altro ieri è «vera e propria mistificazione», un «arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale, frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della “grammatica” del diritto penale». Sono parole della giunta dell'Unione delle Camere penali (Ucpi), secondo cui della nuova legge non ci sarebbe nemmeno bisogno. Perché non è vero che i responsabili di gravi incidenti finora sono rimasti impuniti. Accuse molto forti, che hanno un fondamento di verità, anche se appaiono criticabili sulla questione dell'impunità.

Fanno bene i penalisti a ricordare che già prima in caso d'incidente mortale non c'era il semplice reato di omicidio colposo (pena da sei mesi a cinque anni), ma la sua versione con aggravante specifica legata proprio alla violazione di norme stradali (pena da due a sette anni, che diventavano da tre a 10 anni se il colpevole era risultato in stato di ebbrezza grave o di alterazione da droga). Però non si può negare che in non pochi casi i giudici tendevano a preferire i minimi di pena e, considerando i vari “sconti” previsti dalle regole generali (come quello di un terzo per chi accetta il rito abbreviato) le condanne effettive si mantengono entro i due anni. Cioè sotto la soglia che dà diritto a non andare in carcere perché c'è la sospensione condizionale della pena.

L'Ucpi non concorda, tanto che afferma che «non è assolutamente vero che prima non ci fossero gli strumenti per scoraggiare, mediante la minaccia di severe sanzioni, un fatto certamente molto grave e socialmente intollerabile, né, almeno nella maggioranza dei casi, si può dire che le decisioni dei giudici fossero ispirate a criteri di particolare clemenza, anzi». Non esistono statistiche precise che dimostrino dove sia la verità, ma di certo la cronaca si è spesso occupata di casi di sostanziale impunità.

Secondo l'Ucpi, poi, spesso la giurisprudenza «certo con eccessi assolutamente non condivisibili aveva ricondotto il fatto alla previsione dell'omicidio doloso, con dolo eventuale (pena da ventuno a ventiquattro anni)». Vero, ma solo per pochi casi particolarmente gravi e, soprattutto, finiti sempre con una condanna per omicidio colposo perché la Cassazione ha sempre bocciato le sentenze d'appello che riconoscevano il dolo eventuale.

Piuttosto, andrebbe detto che in questi casi l'omicidio colposo aggravato dalla violazione del Codice della strada e da effetti di alcol e droga veniva punito col massimo della pena o poco meno, quindi sui 10 anni. Certo, anche qui gli “sconti” rendono meno pesante la pena effettiva. Ma in questi casi l'imputato in prigione ci va davvero. E comunque le pene che sono state in vigore finora sembrano più proporzionate al contesto: altri reati che suscitano allarme sociale non sono puniti diversamente, per cui i 12 anni (o addirittura 18 nei casi più gravi in cui c'è più di una vittima) che la nuova legge sull'omicidio stradale prevede come massimo possono sembrare esagerati.

Questo, tra l'altro, porta al rischio concreto che la Consulta dichiari l'incostituzionalità della nuova legge per il trattamento diseguale riservato a situazioni di pari gravità: prima le pene erano uguali a quelle previste in caso di infortuni mortali sul lavoro, ora sono superiori. Ma appare poco credibile che un datore di lavoro che trascura di proteggere i dipendenti sia da trattare meglio rispetto a un guidatore molto spericolato.

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