E' legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore, il quale, fruendo dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104/92 e anche in assenza di un comportamento elusivo, usufruisca solo parzialmente del tempo totale concesso per l'assistenza al parente. A dirlo è la sentenza 5574/16 della Cassazione, depositata lo scorso 22 marzo.
La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di un lavoratore licenziato dall'azienda presso cui era impiegato per essersi recato presso l'abitazione del parente assistito nei giorni 22, 26 e 28 novembre 2012 – per i quali aveva fruito dei permessi di cui alla legge 104/92 - soltanto per complessive 4 ore e 13 minuti, pari al 17,5% del tempo totale concesso. Una condotta di abuso secondo il Tribunale di Lanciano, a cui il lavoratore aveva fatto ricorso e che aveva considerato, quindi, legittimo il recesso datoriale per giusta causa. La tesi del Giudice di primo grado era stata fatta poi propria anche dalla Corte d'appello di L'Aquila, a cui il lavoratore si era rivolto. Per il Giudice di secondo grado, in particolare, la sanzione irrogata doveva ritenersi “proporzionata all'evidente intenzionalità della condotta e alla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l'idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell'obbligo assistenziale”.
Nel valutare i motivi di ricorso del lavoratore licenziato, tutti respinti, la Cassazione si è concentrata in particolare sul rilievo secondo cui in appello sarebbe stato trascurato il fatto che il dipendente non aveva avuto alcuna intenzione di non prestare assistenza al familiare, essendosi anzi regolarmente recato da lui e non essendosi allontanato dalla propria abitazione per momenti di svago o per andare a svolgere altre attività lavorativa, con ciò violando il disposto degli articoli 1175, 1375 e 2119 del codice civile. Secondo il ricorrente, in buona sostanza, la condotta da lui posta in essere, qualora fosse “suscettibile, per ipotesi, di rilievo disciplinare, non poteva certamente, in assenza di un consapevole intento elusivo, condurre all'applicazione della sanzione espulsiva”.
Una censura a cui per i giudici di legittimità la sentenza di appello si sottrae dal momento che la sussistenza dei requisiti per la concessione dei permessi e la valutazione della condotta successiva del tenuta del lavoratore che li ha ottenuti restano due elementi distinti, “ben potendo il datore di lavoro procedere a una propria autonoma valutazione di tale condotta nell'ottica del rispetto del canone di buona fede che presiede all'esecuzione del contratto di lavoro”. In questo contesto il fatto che il lavoratore abbia tenuta una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali alla base delle legge 104/92 non incide sulla giusta causa di recesso datoriale, “risultando dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale del tempo destinato all'attività di assistenza rispetto a quella totale dei permessi, sia relativi ad altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata” la presenza di “un evidente, quanto anch'essa incontestata irregolarità sia in termini di fascia oraria, sia in trermini di durata della permanenza”.
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