
Poco meno di due mesi fa le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente statuito, con la sentenza 5078/2016, l’illegittimità dell’assoggettamento ad Iva della cosiddetta Tariffa di igiene ambientale (Tia), in quanto altro non era che la riproduzione sotto diverse spoglie della “tassa”, cioè di un tributo che il cittadino deve pagare senza nessun concreto rapporto di sinallagmaticità tra prestazione ed importo dovuto.
La Tia era infatti dovuta anche nel caso in cui il contribuente non avesse fatto un utilizzo del servizio, copriva – come la tassa – anche il costo dello spazzamento delle strade e, soprattutto, era commisurata con i criteri tipici dei tributi, gravando di più sui non residenti che – al contrario – sono quelli che producono meno rifiuti da smaltire.
Con queste caratteristiche del provento non era possibile pretendere l’applicazione dell’Iva, prova ne sia che la Cassazione esclude anche la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, tanto è palese la regola da applicare per risolvere la controversia.
Non si può tardare nel prevedere una soluzione legislativa al regolamento dei rapporti tra gli emittenti delle fatture e i destinatari del relativo addebito. Questi rapporti non sono di diritto tributario ma di diritto civile, in quanto conseguono all’esercizio della rivalsa e non derivano da controversie con l’amministrazione finanziaria, che anzi è stata la causa di questa irregolarità, dato che sia l’Agenzia delle entrate (risoluzioni 25/E del 5 febbraio 2003 e 250/E del 17 giugno 2008) che il ministero delle Finanze (circola 3/DF dell’11 novembre 2010) avevano invece preteso l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, che i Comuni e/o le società incaricate della gestione del servizio hanno regolarmente versato.
L’aspetto più aberrante che si può leggere nella sentenza della Cassazione riguarda il costo della lite rispetto all’entità del tributo da recuperare: la causa nasce infatti presso il giudice di pace e, in teoria, ogni utente dovrebbe attivarsi nuovamente presso gli organi di giustizia, in quanto – in assenza di una norma ad hoc - la restituzione spontanea del tributo da parte di chi ha emesso la fattura non dà a titolo per chiedere il rimborso dell’imposta all’erario (Cassazione, sentenze n. 12666 del 20 luglio 2012 e n. 1426 del 26 gennaio 2016).
Su questo quadro già complesso si innestano altri due problemi: l’intervenuta detrazione dell’Iva da parte di chi ha ricevuto queste fatture nell’esercizio di impresa, arte e professione, e la detrazione eseguita dai Comuni o dai gestori del servizio, in quanto la “trasformazione” del corrispettivo in tassa comporta che l’Iva sui beni e servizi acquistati per lo svolgimento del servizio diventa indetraibile.
Questo è il problema di maggior rilievo, prova ne sia che alcuni comuni avevano già provveduto a sostituire le fatture imponibili con gli avvisi di pagamento della Tia senza Iva. Ma, rendendosi conto della perdita della detrazione sui costi del servizio, alla fine hanno chiesto ulteriori importi ai contribuenti per coprire i costi al lordo dell’Iva, mentre la tariffa imponibile era stata costruita considerandoli al netto.
È sicuramente inimmaginabile che chiunque abbia pagato questa Iva indebita debba attivarsi individualmente, così come non si può pensare che la soluzione si possa collocare in contrasto con la direttiva dell’imposta sul valore aggiunto.
Occorre quindi che venga adottata una misura normativa (senza aspettare la prossima legge di Stabilità, la sede opportuna è la legge europea 2015, tuttora in prima lettura) per una soluzione globale del problema, che consenta cioè di evitare il proliferare di cause che andrebbero ancor più ad intasare gli organi giurisdizionali.
In ogni caso bisogna distinguere tra chi ha potuto detrarre totalmente l’Iva, nel qual caso è logico ipotizzare la conferma sia dell’imposta che della detrazione (è inutile riaprire un effetto sostanziale pari a zero), mentre per chi non ha detratto, in tutto o in parte, la restituzione del tributo deve avvenire al netto della quota di Iva che esprime l’aumento del costo del servizio conseguente alla rettifica della detrazione per chi aveva emesso le fatture.
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