Quanto pesano gli scandali dei data leaks, sempre più frequenti e sempre più connaturati al capitalismo digitale, sul valore delle società anche solo marginalmente coinvolte o solo sfiorate dalla rivelazione dei segreti? Tanto, tantissimo, e negli anni sempre di più.
Lo dimostra uno studio svolto da tre professori universitari (James O’Donnovan, Insead; Hannes Wagner, Bocconi; Stefan Zeume, University of Michigan) che all’indomani della tempesta dei Panama Papers hanno calcolato l’effetto sui mercati degli scandali sollevati da divulgazione di notizie a loro modo riservate.
Lo studio, aggiornato in seconda edizione a fine aprile scorso, dimostra che nella prima settimana di aprile (lo scandalo esplose domenica 3) le perdite di capitalizzazione di mercato delle oltre 1.100 aziende di cui si è avuta un’evidenza di collegamento con i paradisi fiscali svelati, viaggiano tra 220 e 230 miliardi di dollari. Si tratta di un’emorragia di quasi quattro volte superiore allo scandalo Enron del 2000/2001 (68 miliardi) e di oltre 16 volte lo “shock” di borsa per le emissioni truccate dei motori diesel del gruppo Volkswagen (14 miliardi di dollari).
A essere coinvolte dagli ultimi “papers” sono state società con filiali a Panama, alle Isole Vergini britanniche, alla Bahamas e alle Seychelles – tax havens in cui risiedono il 90% delle “costruzioni” riferibili all'avvocato Mossack Fonseca – che hanno subito una contrazione dello 0,5%-0,6% della capitalizzazione come “semplice” primo impatto dei Panama leaks.
Un danno, non solo di immagine, che ha finito per inguaiare ancora di più le aziende che si è scoperto operare in paesi percepiti ad alta corruzione sistemica. Ancor peggio è andata per quelle società che giocavano sul tavolo “paradisiaco” di Mr.Fonseca e contemporaneamente in paesi che hanno visto coinvolti politici di primo piano: queste aziende hanno sofferto di un ritorno “abnormemente” negativo. Ne sono prova proprio le società islandesi basate in paradisi fiscali che, dopo la rivelazione che il primo ministro del paese dei ghiacci aveva interessi nelle Isole Vergini britanniche, hanno subito una performance negativa più che doppia rispetto alla media dei Panama-leaks (1,4%).
Ma non tutti i paradisi sono uguali, spiega lo studio delle tre università, o quantomeno l’equivalenza tra paradiso “terrestre” e paradiso fiscale non è così automatica. Mentre avere filiali a Panama, alle Isole Vergini e alla Bahamas ha inciso molto negativamente sul valore dei titolo, lo stesso non è accaduto con le Seychelles, il quarto lato dei papers di Mr.Fonseca: lì l’impatto è stato di fatto pari a zero. Non è un caso, argomentano gli autori, perché mentre Bahamas e Panama sono nella lista dei 15 stati non cooperativi in materia di antiriciclaggio (Financial Action Task Force, anno 2000), le Seychelles nel frattempo sono “emerse” dalle liste grigie dell’Ocse (agosto 2009) e anche da quella degli Usa (Stop Tax Haven Abuse Act).
“Non tutti i paradisi fiscali sono uguali: alle Seychelles, per esempio, l’impatto sul valore dei titoli è stato pari a zero”
Complessivamente l’analisi del primo impatto dei dataleaks dimostra che gli investitori considerano la fuga di notizia come un fattore di distruzione del valore generato dalle attività offshore. La controprova logica, se ce ne fosse ancora bisogno, che i paradisi fiscali – e i segreti un tempo non lontano custoditi come reliquie – hanno una funzione “economica” sullo scacchiere della finanza internazionale.
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