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Articolo 18 e pubblico impiego: la cattiva supplenza alla politica che non…

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Articolo 18 e pubblico impiego: la cattiva supplenza alla politica che non decide

  • –di Maria Carla De Cesari e Giampiero Falasca

Dopo la sentenza della Corte di cassazione con cui è stato dichiarato che, nel pubblico impiego, si applica ancora il vecchio articolo 18, senza le modifiche introdotte per i licenziamenti disciplinari ed economici dalla riforma Fornero del 2012, sarebbe facile accusare la magistratura di incoerenza. In pochi mesi, la Cassazione (seppure in sezioni differenti) è giunta a conclusioni opposte. Di ieri la decisione sull’inapplicabilità, per i dipendenti pubblici, dell’articolo 18 così come modificato dalla legge Fornero (che, lo ricordiamo, ha ricondotto i licenziamenti disciplinari illegittimi a fatti insussistenti o a condotte punite con sanzioni conservative nei contratti collettivi o nei codici disciplinari). Lo scorso novembre, invece, la Corte ha optato per l’uniformità tra pubblico e privato.

Tuttavia, se ci limitassimo ad analizzare le eventuali incongruenze nel ragionamento della Corte rischieremmo di prendere di mira l’effetto e non la causa del problema, che sembra figlio di un’indecisione di fondo della politica.

Il dibattito seguito al decreto legislativo 23/2015, sul pubblico impiego ricompreso o meno nell’alveo delle tutele crescenti, è esemplificativo. Le argomentazioni degli esperti e degli opinion maker sono state messe a tacere dal Governo: la questione sarebbe stata risolta con la riforma del pubblico impiego.

“L’indecisione della politica, con la tecnica del rinvio, ha prodotto norme “reticenti” su questioni di fondo”

 

La soluzione non è mai arrivata e la questione resta aperta. Un problema analogo si è verificato (come confermano le sentenze opposte della Cassazione) con la legge Fornero, che ha rinviato al confronto tra Governo e organizzazioni sindacali la definizione circa «gli ambiti, le modalità e i tempi» dell’armonizzazione della disciplina del pubblico rispetto al privato.

L’indecisione della politica, con la tecnica del rinvio, ha prodotto norme “reticenti” su questioni di fondo. La legge Fornero e il Jobs act non dicono mai espressamente che la riforma sui licenziamenti si applica solo al lavoro privato. Da qui le decisioni contrastanti della Cassazione su un aspetto non di dettaglio della disciplina giuslavoristica.

In questo modo è stato sconfessato quel processo di “privatizzazione” del pubblico impiego che avrebbe dovuto equiparare le regole vigenti per modernizzare l’amministrazione statale. Questa scelta sembra essere stata abbandonata: è iniziata una lenta e costante opera di demolizione del principio, probabilmente per ragioni di consenso. Si arriva così al paradosso di lasciare ai giudici la decisione sul regime dei licenziamenti per i pubblici dipendenti, con il rischio di creare - inseguendo la corretta interpretazione di una legge sibillina - una discriminazione nel trattamento tra i dipendenti pubblici e quelli privati. E non varrebbe, come giustificazione, il fatto che i pubblici dipendenti sarebbero giustamente destinatari di una diversa tutela in quanto devono garantire il buon andamento della pubblica amministrazione.

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