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L’amministrazione giudiziaria va proposta con cautela

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diritto e impresa

L’amministrazione giudiziaria va proposta con cautela

Il disegno di legge 2134/S di modifica al cosiddetto Codice antimafia (Dlgs 159/2011) e il più recente parere della Procura nazionale antimafia si prestano a uno sforzo di sintesi sul tormentato tema della compatibilità delle misure di prevenzione con il diritto di difesa del proposto. In particolare, l’attenzione si focalizza sull’articolo 34, che disciplina l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche.

Il comma 2 precisa che, laddove esistano «sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche agevoli l’attività … di persone sottoposte a procedimenti penali», ad esempio per usura o reimpiego, «il tribunale dispone l’amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività», per un anno massimo. La ratio della norma è abbastanza chiara e mira a evitare che l’attività economica sia inquinata dal condizionamento operato dalle organizzazioni criminali, così recidendo ogni pericolo di infiltrazione ed eliminando potenziali effetti distorsivi per il libero mercato. Dunque, una messa sotto tutela di mano pubblica, finalizzata alla “bonifica”.

Come non di rado accade, le nobili e condivisibili intenzioni si nutrono di un humus fertile quanto ambiguo. La formulazione testuale, strutturata su parametri distonici rispetto al tessuto processuale, è fonte di disorientamento e discrezionalità, a detrimento della certezza del diritto. Così per quanto concerne la formula «sufficienti elementi», poiché gli «elementi» sono ignoti al lessico tecnico; ancora, «l’agevolare attività» di persone nei cui confronti è stata solo proposta una misura di prevenzione. Il climax ascendente si raggiunge con la previsione dell’amministrazione giudiziaria in ipotesi di agevolazione di un semplice indagato. Se dall’etereo dell’astrazione normativa si passa alla cruda realtà quotidiana, ciò significa che l’amministrazione giudiziaria colpirà l’attività economica di un terzo, non sottoposto a procedimento penale, solo sul presupposto che questi possa agevolare l’indagato, presunto innocente secondo la Costituzione.

Il calvario dell’estraneo in amministrazione giudiziaria non è finito qui: ottenuta dal Tribunale la revoca, può vedersi sottoposto a controllo giudiziario, addirittura per un periodo non inferiore a tre anni, con l’obbligo di un flusso informativo costante della propria situazione economico- gestionale.

L’articolo 34 ha ricevuto una timida applicazione giurisprudenziale: a parte il noto caso Tnt (l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle filiali lombarde dell’azienda), non si conoscono precedenti di rilievo, forse proprio per l’oggettiva difficoltà di “giustificare” la misura di fronte a labili quanto onnivore definizioni. La diffidenza trasversale verso l’istituto nasce dalla non sempre felice esperienza dell’amministrazione giudiziaria, affidata a professionisti che vestono improvvisamente i panni del manager e dell’imprenditore nei più disparati settori, non dismettendo quelli del controllore diffidente verso chi ha peccato venialmente e assume un ruolo ibrido agli occhi del legislatore: vittima perché esposto alla criminalità, ma da “accompagnare” nel percorso di redenzione, non cedendo alle sirene accattivanti del profitto facile.

Ecco perché le modifiche suggerite dal disegno di legge e l’incoraggiamento dell’Antimafia, in senso estensivo, vanno maneggiate con estrema cautela. Senza dubbio salutare la (scontata) sostituzione degli «elementi» con gli «indizi»; ma l’input della procedura derivante anche dai poteri ispettivi dell’Anac, la durata complessiva in due anni, il curioso divieto per l’amministratore giudiziario di percepire emolumenti dalle cariche societarie ricoperte, l’introduzione con l’articolo 34-bis del controllo giudiziario dell’azienda occasionalmente toccata da «circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose», riproducono i rischi di legalità evidenziati.

Di fronte del resto all’ampliamento costante dei sottoposti ad aggressione patrimoniale (dall’evasore fiscale al corruttore socialmente pericolosi, sino all’inedita figura del falso avvocato, come da pronuncia del 16 febbraio 2016 del Tribunale di Milano – Misure di Prevenzione), risulta chiaro come l’“interesse” giurisprudenziale viri verso la criminalità da profitto, colpendo il tenore di vita non giustificabile. Si può essere entusiasti o tiepidi osservatori, ma ciò che conta è avviare una riflessione seria nel marcare il confine tra efficienza e garanzia.

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