L’annuncio che il nuovo sistema di politiche attive del lavoro disegnato dal Jobs act sta per muovere i primi passi è un fatto positivo: le crisi aziendali non sono affatto finite, come testimoniano gli ultimi dati sulle ore di Cassa integrazione straordinaria autorizzate dall’Inps (+9,66% di richieste nei primi sette mesi dell’anno); e in alcuni territori, soprattutto Nord-Est e alcune regioni del Centro-Sud, ci sono ancora diversi settori dell’industria in forte sofferenza.
E proprio da qui, dalle nove aree di crisi più “complessa”, che vanno da Piombino a Taranto, solo per fare alcuni nomi, si inizierà a sperimentare il nuovo mix di interventi a sostegno dei piani di riconversione, che farà leva su servizi specifici di formazione e riqualificazione del personale in esubero (e di mappatura dei territori) per aiutare le persone a inserirsi (si spera più agevolmente) in un altro impiego. A regime, l’assegno di ricollocazione, che è il cuore di questo nuovo sistema di politiche del lavoro, dovrà spingere il disoccupato ad “attivarsi”, e ci sarà (finalmente) una forte condizionalità: se si rifiuta un’offerta ritenuta oggettivamente congrua, si perderà il voucher.
Il cambio di paradigma nel mercato del lavoro, e in particolare nel campo delle relazioni industriali, è, sulla carta, molto forte: finora la gestione delle crisi si è basata su una proroga reiterata dei sussidi passivi con l’unico obiettivo di scongiurare il licenziamento; e, nel caso - non più evitabile - di perdita del posto, c’è l’entrata in gioco dei servizi pubblici per l’impiego, con risultati alquanto modesti (dall’ultimo monitoraggio Isfol dello scorso maggio è emerso chiaramente che la prima attività dei Cpi sono «gli adempimenti e le pratiche burocratiche», che assorbono il 75,8% delle loro attività).
Certo, in Italia, da anni, i finanziamenti per le politiche attive non sono mai stati una priorità dell’azione politica; ma non c’è dubbio che sia ora che un Paese evoluto (come il nostro) si attrezzi, da Milano a Palermo, di centri pubblici all’altezza e servizi adeguati.
In quest’ottica, la sfida che attende Anpal è decisiva, e molto dipenderà dal grado di “non ostilità” che si riuscirà a raggiungere con le Regioni, e dal coinvolgimento, si spera pieno e fattivo, delle agenzie private, in grado di dare un contributo importante alla riuscita dell’intera operazione.
Attenzione, poi, a non sottovalutare il “fattore tempo”. La macchina, e l’Anpal, si stanno mettendo in moto adesso. Secondo le stime più ottimistiche (anche all’interno dello stesso governo), ci vorranno almeno due anni prima che il nuovo sistema di politiche attive dispieghi fino in fondo i suoi effetti. Ebbene: a dicembre di quest’anno, imprese e lavoratori non potranno più contare su mobilità e cassa integrazione in deroga. C’è quindi all’orizzonte un periodo di transizione abbastanza lungo, e che è fondamentale affrontare bene, con soluzioni chiare. Le nuove politiche attive, nei fatti, spingeranno le parti sociali ad anticipare i percorsi di gestione delle crisi. Imprese e sindacati ne sono consci. Si dovrà cambiare approccio. Di qui l’importanza che il governo aiuti il cambiamento, mettendo in campo adeguate misure di accompagnamento.
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