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Studi di settore, la revisione passa da un investimento sulle banche dati

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Studi di settore, la revisione passa da un investimento sulle banche dati


Per convincersi dell'intrinseca irrazionalità degli accertamenti fondati sugli studi di settore non occorre scomodare il noto paradosso dei polli di Trilussa (quello, per intendersi, per cui in base alla statistica se una persona mangia un pollo intero ed un'altra nulla, mediamente hanno mangiato mezzo pollo a testa); basta il buon senso. L'idea stessa di impiegare come strumento di determinazione degli imponibili mere elaborazioni statistiche, infatti, cozza con il buon senso, nella misura in cui pretende di tassare imponibili meramente virtuali. Il che non può evidentemente essere tollerato, nella prospettiva costituzionale della capacità contributiva.
A ben vedere, però, gli studi di settore non sono nati con il fine di misurare l'imponibile da tassare bensì e più semplicemente (o più modestamente) sono stati concepiti come criterio selettivo dei contribuenti da controllare; quale fattore, cioè, di innesco dell'attività di accertamento, da condurre però secondo le regole ordinarie anche in tema di riparto dell'onere della prova. Il fine perseguito con l'introduzione degli studi di settore ad opera degli articoli 62-bis e successivi del Dl 331/1993 era in effetti essenzialmente quello di predisporre uno strumento di azione che, consentendo di tarare a priori gli obbiettivi, rendesse più efficace ed efficiente l'azione di recupero. Attraverso l'elaborazione di modelli ideali di contribuenti, individuati sulla base di medie statistiche, l'obiettivo era insomma quello di indirizzare l'azione accertativa verso coloro che, discostandosi da dette medie, palesavano come verosimile l'occultamento di materia imponibile. Il progetto non era privo di una sua razionalità; sennonché, come noto, ha poi avuto un'attuazione completamente difforme dalle intenzioni. Pensati come parametro di selezione dei contribuenti da verificare, gli studi di settore si sono, quasi subito, trasformati in un indice di evasione che, nelle intenzioni dell'Amministrazione finanziaria, poteva (doveva) fondare e provare l'accertamento delle imposte evase.
È solo con l'intervento della giurisprudenza (Cassazione, Sezioni unite, 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009) che si è in qualche modo rimediato alla deviazione di rotta impressa agli studi di settore, relegandoli al ruolo di presunzioni semplici ed imponendo il contradittorio con il contribuente per verificarne l'attendibilità e la valenza argomentativa rispetto alla realtà concreta del singolo operatore.
Su queste premesse, immaginare un futuro degli studi di settore non sembra agevole. Da un lato, una funzione (marginale) di mero strumento di innesco dell'azione accertativa appare oggi riduttiva e tale da non giustificare l'impegno che da tutte le parti (pubblica come privata) vi viene costantemente profuso. Dall'altro, è però oramai chiaro che non può costituire strumento di accertamento, per i limiti che la giurisprudenza ha oramai conclamato. Rimane la prospettiva, sempre più evocata, di trasformare gli studi di settore in strumenti di compliance, ossia di modelli di adeguamento per i contribuenti. Sennonché, una volta depotenziati come mezzi di accertamento, riesce difficile pensare come possano funzionare da deterrente ed influenzare le condotte dei contribuenti. Ciò, a meno che non acquisiscano altrimenti autorevolezza; non convenienza, bensì autorevolezza.
Perché ciò accada occorre forse una riflessione più generale sul tanto invocato coordinamento tra le molteplici banche dati a disposizione dell'Amministrazione (dal redditometro all'anagrafe dei conti, per incominciare). Prima e a prescindere dalle blandizie ad adeguarsi (sgravando gli adempimenti ovvero garantendo franchigie dalle verifiche), gli studi di settore potrebbero assumere un diverso rilievo laddove si inserissero in un quadro informativo tarato sul singolo contribuente, ampio ed articolato, quale può risultare solo dall'impiego combinato delle varie banche dati. In un quadro siffatto, ecco che gli studi di settore, quale attendibile indice (e campanello di allarme) di un fondato ed argomentato, prima ancora che probabile, intervento dell'Agenzia, potrebbero effettivamente funzionare per promuovere i comportamenti virtuosi.
Occorre però che l'Amministrazione finanziaria incominci a dare compiuta dimostrazione di un impiego diffuso e pervasivo delle informazioni a propria disposizione. Al di là di questo, nessuna revisione sembra infatti in grado di scongiurare un impiego distorto degli studi di settore, nell'ambiguità tra strumento di indirizzo e mezzo di controllo, con le ricadute in tema di incertezza, litigiosità e, evidentemente, contenzioso, ampiamente noti e che è però giunto il tempo di superare.

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