Se si pensa che il cammino degli studi di settore è partito all’inizio degli anni Novanta dell’altro secolo, ben si comprende come la profonda riforma alla quale si sta lavorando possa essere definita, per una volta senza esagerazioni, come svolta epocale. L’obiettivo è chiaro: gli studi di settore non saranno più solo uno strumento per l’accertamento, ma un indicatore destinato a favorire la compliance del contribuente. Il tutto nella logica di maggiore collaborazione e minori controlli ex post che vuole caratterizzare, almeno nelle intenzioni, questa stagione nei rapporti Fisco-contribuenti. Tutto bene, dunque? In realtà, come sempre, molto dipenderà da come la trasformazione verrà gestita e,di conseguenza, da come si affronterà lo storico problema del sistema fiscale italiano: la presenza di milioni di piccole imprese e lavoratori autonomi, di fatto non controllabili se non in modo saltuario. Abbandonare gli studi di settore deve portare alla massimizzazione delle nuove possibilità offerte da banche dati e tracciabilità, collegata a premi sui controlli per chi non prova a sfuggire al Fisco e all’uso intelligente del futuro Gerico come alert per la compliance. Con la prospettiva di un parziale ritorno alle origini se si pensa che alla loro nascita gli studi di settore avrebbero dovuto essere anche uno strumento destinato a permettere alle imprese di valutare le proprie performance rispetto al comparto di riferimento. Allora si parlava di strumento di benchmark finanziario ed economico mentre ora l’attenzione sarebbe puntata a una regolarità fiscale da valutare in anticipo per evitare controlli futuri.
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