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I voucher e il traguardo troppo lontano della buona occupazione

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LAVORO

I voucher e il traguardo troppo lontano della buona occupazione


Sono trascorse poco più di due settimane dalla pubblicazione delle “30 slide per 30 mesi”, breve presentazione con la quale il governo Renzi – per l'appunto a distanza di 30 mesi dal suo insediamento, nel febbraio del 2014 – ha voluto riassumere, dati alla mano, l'attività sinora svolta, anche al fine di fare chiarezza rispetto a cifre non sempre concordanti o facilmente interpretabili.
Così, citando le ultime rilevazioni statistiche dell'Istat, l'esecutivo ha rivendicato la paternità della netta accelerazione nel numero complessivo degli occupati (+585mila) e del calo di quasi due punti percentuali (dal 13,1 al 11,4) del tasso di disoccupazione registrati sotto la propria egida.
Risultati di tutto riguardo, non c'è dubbio. Tuttavia, tali numeri nulla ci dicono rispetto alla effettiva “qualità” di tale balzo occupazionale.
I dati Istat, infatti, soffrono di alcuni limiti connaturati alle tecniche stesse di rilevamento statistico. È ben possibile, d'altronde, che a una corretta metodologia di ricerca conseguano risultati non del tutto coerenti con le situazioni concrete che intendono analizzare.
Con riferimento ai dati occupazionali, è questo il caso dei dati relativi alla forza lavoro nazionale rispetto ai lavoratori occasionali retribuiti tramite voucher: in quale categoria statistica ricadono tali lavoratori? La stessa Istat, pochi mesi fa interrogata in proposito da un utente di un social network, destando più di qualche agitazione sulla rete, ha risposto che si considera “occupato” il prestatore che “nella settimana di riferimento dell'indagine ha lavorato almeno un'ora”.
Adesso, sia bene inteso, l'Istituto – come lo stesso si è affrettato a replicare sul medesimo social network – applica degli standard condivisi a livello internazionale e lo fa in maniera costante da svariati anni. Di conseguenza, la correttezza formale sia del dato in sé, sia del suo rapporto con le serie storiche precedenti, non è in discussione.
Non si può, però, fare a meno di porsi più di un dubbio rispetto alla sostanza di questo dato. Quanto è “affidabile” un dato occupazionale che ricomprende al suo interno tra gli “occupati” anche dai lavoratori occasionali retribuiti un'ora (vale a dire 7,50 euro netti) a settimana?
E tale dubbio non è di poco conto se si raffrontano i numeri della forza lavoro dell'Istat con i dati divulgati dall'Inps – basati sui registri delle amministrazioni e non su proiezioni statistiche – relativi all'utilizzo dei voucher negli ultimi anni.
Dall'indagine dell'istituto previdenziale (che copre gli anni dal 2008 al 2015 incluso), infatti, è agevole vedere come dei circa 2,5 milioni di lavoratori che hanno svolto attività di lavoro accessorio nel periodo considerato, oltre 1 milione lo abbia fatto nel 2014 e ben 1,4 milioni nel 2015, dei quali il 59% “esordienti” in tale tipologia di prestazione, con un balzo in avanti (qui senza dubbi di sorta) da 40,8 milioni di voucher venduti nel 2013 a 115 milioni di tagliandi staccati nel 2015.
Sempre secondo i dati Inps, per la metà di tali lavoratori l'importo netto percepito in un anno è uguale o inferiore a 217,50 euro; in 4 casi su 10 i voucher rappresentano l'unica fonte di reddito del lavoratore che li riceve e in un caso su 6 il lavoratore non ha neanche una posizione previdenziale.
Non sembra, quindi, ozioso chiedersi quanti di quei 585 mila nuovi “occupati” non siano in realtà lavoratori che percepiscono pochi euro a settimana e che versano in palesi condizioni di precarietà.
A voler ben guardare i dati Istat, si potrebbe cercare una risposta nella definizione di lavoratori indipendenti. Rispetto a questi, l'istituto statistico dà atto di una scorporazione tra i collaboratori e gli altri autonomi in generale (imprenditori, liberi professionisti, soci di cooperativa, etc…). Ad ogni modo, anche non considerando tali ultimi e coloro tra gli “indipendenti” che abbiano, a loro volta, del personale alle proprie dipendenze, il novero dei rimanenti rappresentano pur sempre circa il 16% del totale della forza lavoro e circa il 28% dei nuovi “occupati” dell'ultimo anno.
Adesso, a ben vedere, nonostante lo sforzo appena fatto, ciò che abbiamo ottenuto è appena un'approssimazione del dato che stiamo cercando. E nel constatare tale limite dello strumento statistico a nostra disposizione scopriamo il cuore stesso della questione.
Da una parte abbiamo, infatti, il problema metodologico; tema importante, non vi è dubbio, ma che, probabilmente, appassiona solo i tecnici: possibile che l'istituto nazionale di statistica non sia in grado di offrire un dato occupazionale al netto del numero dei rapporti occasionali? E ancora, i dati occupazionali ottenuti possono essere considerati delle cartine di tornasole attendibili rispetto alle politiche del lavoro varate o sono inevitabilmente inquinati dall'effetto distorsivo del boom dei rapporti occasionali degli ultimi due anni?
Dall'altra parte, rimane, invece, il tema sostanziale, che sta sicuramente a cuore a molti più Italiani, ed efficacemente sintetizzabile parafrasando il dubbio espresso (legittimamente) dall'utente del social network cui accennavamo qualche riga fa: io – lavoratore occasionale, senza garanzie contrattuali, che guadagno 7.50 euro netti a settimana – posso davvero essere considerato un “occupato”?
Lasciando la risposta al quesito metodologico ad altre sedi, qui ci preme rimarcare l'urgenza con la quale si debba porre rimedio al problema sostanziale. Chi governa, infatti, prima di (o piuttosto che, sarebbe meglio dire) ostentare dati con acritica leggerezza, dovrebbero cercare di porre argini effettivi alle nuove frontiere del precariato. In tal modo, i dati statistici darebbero atto di qualche “occupato” in meno, ma si riconoscerebbe a milioni di prestatori di lavoro la dignità che uno Paese come il nostro dovrebbe sempre mirare a garantire.

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