Norme & Tributi

Dall’Ilor all’Irap, il pasticcio-organizzazione

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Dall’Ilor all’Irap, il pasticcio-organizzazione

  • –di P.Q.M.
(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Qualcuno ricorderà la tesi dei corsi e ricorsi storici e laborata dal filosofo partenopeo Giambattista Vico, secondo il quale nella storia si rincorrono fasi positive alternate a periodi oscuri. Qualcun altro, invece, avrà ancora in mente le vicende tributarie che 25 anni fa riguardavano l’Ilor, l’imposta locale sui redditi: un enorme contenzioso si era creato per stabilire quali fossero gli elementi organizzativi che rendevano tassata un’impresa; la categoria per la quale l’incertezza era maggiore era quella degli agenti di commercio. Fino a quando la norma fu cambiata e vennero introdotti, finalmente, parametri quantitativi che ne resero chiara l’applicazione.

Se rapportiamo al sistema fiscale la teoria di Vico, non possiamo evitare il confronto con il passato per una delle vicende più controverse degli ultimi anni: il periodo buio è tornato, e il ricorso storico riguarda proprio l’organizzazione come elemento rilevante per la tassazione ai fini dell’Irap. Una categoria, per riproporre l’analogia, è al centro dell’incertezza: i professionisti che svolgono la loro attività in forma di studio associato. La Cassazione (Sezioni Unite, 7371/2016) ha recentemente concluso che la semplice adozione della forma giuridica dello studio associato comporta l’obbligo di assoggettare a Irap il valore della produzione derivante dall’attività professionale. L’agenzia delle Entrate, facendo propria questa conclusione, è partita a spron battuto emettendo avvisi di accertamento a raffica a tutti gli studi associati che si erano esclusi da Irap per carenza del requisito organizzativo.

Nessuna indagine, nessun approfondimento, semplicemente un’automatica trasposizione della sentenza nella motivazione degli avvisi di accertamento. Il governo, chiamato in causa da una interrogazione parlamentare (interpellanza protocollo 5-09636), ha sostenuto che la norma è talmente chiara fin dall’inizio che non vi può essere dubbio sul fatto che gli studi associati siano soggetti all’imposta regionale. Dimenticando la (facile) considerazione che se sulla vicenda è dovuta arrivare di esprimersi la Cassazione a Sezione Unite, evidentemente tanta certezza sulla portata della norma originaria non c’era e non c’è. Esistono, infatti, diversi precedenti (i più recenti sono nelle sentenze 4578/2015, 1662/2015) in cui la Cassazione si è espressa in senso diametralmente opposto.

Poi la stessa Cassazione ha complicato la vicenda, ammettendo (nella sentenza 20975/2016) che comunque, anche nel caso di studi associati, possono essere esclusi da Irap i compensi derivanti dallo svolgimento da parte dei soci delle cariche di sindaci, revisori e consiglieri di società. Il che dovrebbe portare, ma solo in un mondo ideale, a un immediato esercizio di autotutela da parte degli uffici finanziari: se gli accertamenti si basano sulla Cassazione, anche i calcoli dovrebbero farlo, e quindi i rilievi dovrebbero essere ridotti. Questo non avverrà, così come si discuterà a lungo su un altro aspetto della vicenda: se venisse stabilito che veramente gli studi associati sono soggetti a Irap, sono sempre e comunque inapplicabili sanzioni sui comportamenti difformi adottati in passato, a causa dell’obiettiva incertezza della norma.

Nel sistema dei corsi e ricorsi di Vico il susseguirsi ciclico degli eventi veniva attribuito all’intervento della provvidenza; nel nostro sistema sicuramente non si può sostenere la stessa cosa. Caso mai, i motivi per cui non si è riusciti neanche su questo aspetto a far tesoro degli errori del passato vanno ricercati nel continuo immobilismo che, nonostante la giurisprudenza e le prescrizioni delle deleghe fiscali, ha fatto germogliare l’incertezza sull’applicazione dell’Irap.

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