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Se la «semplificazione» non aiuta i contribuenti

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Se la «semplificazione» non aiuta i contribuenti

Semplificazione fiscale, amore e democrazia sono probabilmente le parole più abusate del vocabolario italiano.

Circoscrivendo l’analisi all’ambito tributario, di semplificazione fiscale si parla da almeno vent’anni. Ma, dopo l’ennesimo provvedimento volto, appunto, a semplificare, i commercialisti scendono in piazza per protestare, invece, contro l’introduzione di nuovi adempimenti. Si tratta, allora, di semplificazione vera o sono state introdotte nuove complicazioni?

Per rispondere, bisognerebbe trascendere dal “particolare” e comprendere cosa è accaduto, in materia fiscale, negli ultimi 30 o anche 40 anni.
Occorrerebbe partire dalla riforma degli anni Settanta del secolo scorso, basata sul “dogma” della contabilità (anche per micro attività) e dell’accertamento ordinario. Questa filosofia ha miseramente fallito. Perché un conto è tenere la contabilità da parte di chi ne ha effettivamente bisogno, altro usare la stessa contabilità per motivi fiscali. In sostanza, se la contabilità viene tenuta per il Fisco, il primo che deve diffidarne è proprio il Fisco. Vi è stato, però, anche un altro elemento, non proprio secondario, che ha determinato il fallimento del “mito” della contabilità tenuta per motivi fiscali. Per controllare un numero credibile di posizioni, bisogna andare a verificare le contabilità: per farlo, occorrono forze congrue da parte dell’amministrazione finanziaria. Ma queste forze non c’erano.

Così, sono nate le prime forme di accertamento cosiddette standardizzate (prima coefficienti presuntivi poi minimum tax, per arrivare agli studi di settore). Queste forme standardizzate sono state presentate inizialmente come “portatrici di verità”, nel senso che le prime circolari dell’agenzia delle Entrate (siamo nel 2002, per gli studi di settore) le hanno etichettate come presunzioni legali, contro le quali il contribuente può fornire solo la prova contraria, dimostrando che il risultato standard non gli è confacente. Ma i commentatori hanno iniziato a dire che le cose non stanno in questi termini, e che si tratta di presunzioni semplici con l’obbligo da parte dell’ufficio – e non certo del contribuente – di adeguare, attraverso il contraddittorio, il dato standard alla posizione del contribuente. Tutto questo è stato confermato dalla Cassazione a Sezioni unite (siamo nel 2009) e così anche gli accertamenti per standard hanno iniziato a traballare.

Basterebbe vedere i numeri degli accertamenti degli ultimi anni per studi di settore e redditometro per comprendere che l’amministrazione finanziaria ha quasi abbandonato queste forme di rettifica. Anche perché si è compresa un’altra cosa: il contraddittorio non è un rito formale, non è una consegna di memorie difensive da parte del contribuente, ma deve essere effettivo (come insegna la giurisprudenza comunitaria). Il punto è quindi sempre lo stesso: in sostanza, per fare dei contraddittori veri, servono forze in campo da parte dell’amministrazione. Ma queste forze non ci sono.

Così, nel tempo, tutte le informazioni che l’amministrazione finanziaria, nello svolgimento dei suoi compiti, dovrebbe reperire sono state “invertite” e attribuite al contribuente. Sono nate quindi comunicazioni di ogni tipo (spesometri, comunicazioni, black list, minusvalenze, eccetera). In questo modo l’amministrazione – con l’aiuto degli oramai “ausiliari” del Fisco: commercialisti, Caf, associazioni di categoria, eccetera – dispone di tutte le informazioni utili per poter fare i controlli.

Anche il potenziamento del ravvedimento operoso, se si pensa, è figlio della stessa strategia: si manda al contribuente ogni tipo di alert, così che lui faccia tutto da solo, fino ad arrivare ad “autodenunciarsi”.

In tutto questo si assiste a un’autentica schizofrenia: da una parte si introducono nuovi adempimenti (quelli che servono effettivamente all’amministrazione finanziaria per fare i controlli), dall’altra viene dato ogni tanto qualche “zuccherino” (la presunta semplificazione) per placare le (fino a qui flebili) proteste.

In sostanza, perché non si continui ad abusare della parola semplificazione, occorrerebbe dotare l’amministrazione di forze adeguate, oltre che preparate, per eseguire i controlli. In più ci vorrebbero regole e penalità certe. Questa sarebbe la vera semplificazione. Ma si comprende che non a tutti fa gioco.

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