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Acque reflue industriali, qualità e provenienza i criteri da valutare

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Acque reflue industriali, qualità e provenienza i criteri da valutare

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Il criterio per distinguere le acque reflue industriali dalle altre è, in ultima analisi, quello della qualità delle acque stesse. Così sembra avere stabilito la terza sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza n. 51889 depositata il 6 dicembre 2016, intervenendo su una questione tra le più dibattute in tema di scarico di acque reflue industriali.

La vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte riguardava lo scarico in assenza di prescritta autorizzazione delle acque reflue provenienti da una attività di autolavaggio. Più precisamente, nel 2011, a seguito di un controllo effettuato dall’Arpac, era emerso che alle cisterne di un impianto di depurazione era collegato un tubo sottotraccia, il quale faceva defluire le acque accumulate in parte in un canale limitrofo ed altra parte sul suolo. Gli accertamenti effettuati rilevavano la presenza nelle acque di una certa quantità di idrocarburi.

Avverso la sentenza di condanna per la contravvenzione ex articolo 137, comma 1 Dlgs n. 152 del 2006, pronunciata dal Tribunale, l’imputato proponeva ricorso per cassazione. Con un primo motivo, il ricorrente lamentava che la fattispecie in esame avrebbe dovuto rientrare nella violazione amministrativa di cui all’articolo 133. Erano stati superati, infatti, i limiti previsti per lo scarico, ma senza che le relative sostanze fossero comprese nella tabella 4 dell’allegato 5 alla parte terza del decreto, circostanza che quindi impediva l'applicazione del reato di cui all’articolo 137 comma 5. Con altro motivo lamentava l’inapplicabilità al caso in esame della definizione di scarico, dunque di uno dei presupposti per la sussistenza del reato.

Il Collegio ritiene entrambi i motivi infondati. Nella motivazione si prendono le mosse anzitutto dalla definizione legislativa di acque reflue industriali, per la quale sono tali quelle «scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività di produzione di beni, diverse dalla acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento» (articolo 74, comma 1, lettera h, Dlgs 152 del 2006). L’ultima versione del testo qui richiamata e introdotta con il Dlgs n. 4 del 2008, individua, quindi, due criteri per distinguere la natura delle acque: la provenienza dei reflui e la loro composizione chimica. Al riguardo, l’interpretazione più convincente ritiene, alla luce dell’evoluzione legislativa e dell’interpretazione letterale del testo, che il criterio della provenienza sia quello da privilegiare. In altri termini: le acque provenienti da edifici produttivi devono essere considerate industriali, a meno che non abbiano natura identica a quelle domestiche.

La Corte sembra inizialmente aderire proprio a tale interpretazione letterale. Tanto è vero che nella sentenza fa richiamo a entrambi i criteri e considera reflue industriali «le acque […] provenienti da attività artigianali e da prestazioni di servizi […] a condizione che le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche». Poco più avanti, però, la stessa Corte afferma che sono proprio le caratteristiche qualitative dei reflui a distinguere le attività industriali da quelle civili: gli impianti di autolavaggio sono attività industriali perché la «qualità inquinante dei reflui è diversa o più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazione». La Suprema Corte, dunque, così opinando, fa dipendere la provenienza dalla qualità del refluo, circostanza che comporta, dunque, che proprio la qualità delle acque, in ultima analisi, sia l’unico parametro decisivo per distinguere i reflui. Quello che, a una esegesi letterale della disposizione sembrava ai più un criterio secondario diventa quello principale, se non l’unico.

Va segalato, tuttavia, che, nel dichiarare infondato il secondo motivo di ricorso, il Collegio sembra cadere in contraddizione rispetto a quanto appena affermato. La Corte, infatti, nell'affrontare il tema della nozione di «scarico», sostiene che il carattere industriale delle acque reflue, da cui dipende appunto la rilevanza penale dello scarico, è legato alla «tipologia di attività svolta e non tanto all’accertamento della composizione chimica delle sostanze [in queste] presenti».

In definitiva, il percorso argomentativo seguito dalla Corte non pare del tutto condivisibile. Alla medesima conclusione, di ritenere reflue industriali le acque scaricate nel caso in esame, si sarebbe potuti giungere in modo più lineare - e forse aderente alla lettera della legge - osservando che un autolavaggio è un impianto in cui si svolge un’attività commerciale, intendendo per tale il servizio offerto. Certo, il messaggio legislativo sconta, per sua natura, i limiti inerenti a qualsiasi tipo di comunicazione linguistica. Ma, come è stato autorevolmente affermato da Umberto Eco, per arginare anche solo eventuali derive interpretative, «bisogna iniziare ogni discorso sulla libertà di interpretazione da una difesa del senso letterale».

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