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Compravendita annullabile per dolo solo se c'è il raggiro

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diritto

Compravendita annullabile per dolo solo se c'è il raggiro

In caso di mancata consegna dell'immobile compravenduto nei tempi previsti va dichiarata la risoluzione del contratto per grave inadempimento e non l'annullamento per dolo a meno che non venga fornita la prova di un comportamento inequivocabilmente volto a raggirare la controparte. Lo ha stabilito il Tribunale di Perugia, con la sentenza 8 giugno 2016 n. 1304, bocciando la domanda di annullamento ma accogliendo quella di risoluzione presentata in via subordinata dal promissario acquirente, che aveva versato la caparra confirmatoria.

Il giudice ricorda infatti che secondo la giurisprudenza di Cassazione, in tema di annullabilità del contratto, il dolus malus ricorre solo se «tenuto conto delle circostanze di fatto e delle qualità e condizioni dell'altra parte, il mendacio sia accompagnato da malizie e astuzie volte a realizzare l'inganno voluto e idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e il silenzio della parte contraente rileva solo quando si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia od astuzia, a realizzare l'inganno» (n. 30595/2011). La Suprema Corte, prosegue la sentenza, ha inoltre precisato che «il dolo quale causa, di annullamento del contratto (ai sensi dell'articolo 1439 cod. civ.) può consistere tanto nell'ingannare con notizie false, con parole o con fatti la parte interessata (dolo commissivo) quanto nel nascondere alla conoscenza di altri, col silenzio o con la reticenza, fatti o circostanze decisive (dolo omissivo)» (n. 1480/2012). Elementi però non riscontrati nel caso specifico.

Costituiscono, invece, circostanze accertate «l'interruzione dei lavori di ultimazione dell'immobile compromesso in vendita, la mancata consegna dello stesso e la mancata stipula del contratto definitivo». Il venditore, dal canto suo, aveva giustificato l'inadempimento con una «crisi di liquidità», circostanza peraltro corroborata sia dalle ispezioni catastali sia da analoghi inadempimenti riguardanti altri immobili in vendita. Per il Tribunale, dunque, considerato che «il ritardo nell'inadempimento supera ogni ragionevole limite di tolleranza in relazione e all'oggetto del contratto e alla natura del medesimo», va accolta la domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, condannato alla restituzione dei 30mila già versati. Ai fini della risoluzione del contratto, spiega infatti il Tribunale, «non è sufficiente l'inadempimento ma occorre anche la verifica circa la non scarsa importanza ai sensi dell'art. 1455 c.c., dovendo il giudice tenere conto della effettiva incidenza dell'inadempimento sul sinallagma contrattuale (criterio oggettivo) e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l'utilità del contratto alla stregua dell'economia complessiva dello stesso (criterio soggettivo)». Il convenuto è stato inoltre condannato a pagare altri 7.700 euro a titolo di indebito arricchimento.
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