Norme & Tributi

Dieci anni di Tfr e fondi pensione. Il bilancio delle scelte (e dei…

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Dieci anni di Tfr e fondi pensione. Il bilancio delle scelte (e dei rinvii)

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Vi ricordate del semestre del silenzio/assenso alla fine del quale gli italiani (solo i dipendenti privati, nella prima fase, poi anche i pubblici) dovevano decidere su dove destinare il proprio trattamento di fine rapporto? Sono passati dieci anni da quell'evento che rappresenta sotto molti profili un caso di scuola per gli economisti comportamentali, oltre che per il sistema previdenziale. Oltre 12 milioni di lavoratori si erano trovati di fronte alla scelta su dove destinare il 6,91% della propria retribuzione: a un fondo pensione, per rimpolpare la propria rendita pensionistica futura che in prospettiva andrà calando, oppure in azienda, se assunti in una piccola impresa, o all'Inps in un “FondoTesoreria“ avviato per investire in infrastrutture. Diciamo subito che questo progetto si è sciolto come neve al sole: il flusso (attualmente 5,6 miliardi l'anno) è stato prontamente assorbito dalle Casse del Tesoro per le esigenze di cassa correnti.

Sappiamo com'è andata a finire: l'adesione ai fondi pensione è passata dal 12 al 25% al termine del semestre, crescendo di poco più di un milione di iscritti. Un risultato insoddisfacente per gli obiettivi dei policy maker dell'epoca (di ciascuna parte politica). Che lascia milioni di lavoratori privi di un secondno pilastro contributivo che, con il passare degli anni, appare sempre più indispensabile per trascorrere una vecchiaia economicamente serena, visto il progressivo calo delle prestazioni di primo pilastro.

Il che conduce già a una serie di considerazioni: 1) la gente non ama cambiare quando c'è di mezzo un valore importante come era stato fino a 10 anni fa il Tfr; 2) dieci anni fa, ma non è detto che il quadro sia cambiato, i mercati finanziari venivano visti molto più come un rischio che come un'opportunità; 3) l'assenza di una spinta decisa da parte dello Stato in questa operazione lasciava intravedere la maggiore incidenza di altre forze, opposte a quelle che avrebbero allargato la democrazia economica e il controllo dei mercati da parte dei singoli investitori organizzati. Su questi temi molto è stato scritto e ancor più si può scrivere (dal ruolo che avrebbero avuto i lavoratori in alcune recenti crisi bancarie, tra queste Mps). Ma quel che è lecito chiedersi, a dieci anni di distanza, è quale scelta si è rivelata la più azzeccata: il Tfr al fondo pensione o in azienda? La risposta deve tenere conto di una molteplicità di fattori, a partire dalla rivalutazione di quanto accantonato dai lavoratori.

Rendimenti
Premessa necessaria: il Tfr si rivaluta per un tasso che somma il 75% dell'inflazione annua al 1,5%. I fondi pensione, invece, investono sui mercati finanziari sulla base delle strategie indicate per ciascuno dei comparti che mettono a disposizione degli aderenti; strategie differenti sulla base del peso di azioni e obbligazioni in portafoglio, con la maggiore prudenza (teorica) affidata alle linee con maggior componente obbligazionaria a breve termine e, viceversa, maggiore aggressività (teorica) in quelle con una quota maggiore di azioni.

“Il semestre di silenzio/assenso ha prodotto un risultato insoddisfacente per gli obiettivi dei policy maker dell'epoca ”

 


Tutto ciò premesso riguardo la modalità di rivalutazione dei contributi, dobbiamo anche comprendere la distinzione tra il rendimento periodico e l'effetto sul portafoglio: un conto è la percentuale, un conto è l'effetto prodotto sui contributi (tecnicamente è la distinzione tra rendimenti time weighted e rendimenti money weighted). Per questo, abbiamo realizzato un confronto tra le posizioni di due gemelli: il primo che ha deciso di aderire a un fondo pensione e il secondo, identico al primo in tutto e per tutto, che invece ha deciso di continuare a conferire il proprio Tfr come prima. Il risultato a distanza di dieci anni vede l'aderente al fondo pensione con un portafoglio sensibilmente più ricco rispetto a chi ha mantenuto il Tfr in azienda o allo Stato.

Com'è evidente il “delta” positivo varia in base al comparto del fondo pensione scelto; ma quel che è importante sottolineare è che i dati presi in esame, e forniti per questa elaborazione da Solidarietà Veneto (fondo pensione territoriale) registrano risultati superiori per tutti i comparti dei fondi pensione rispetto alla secca rivalutazione del Tfr. Il tutto, nonostante due anni più che neri per i mercati finanziari: il 2008, con il crack Lehman che ha messo in ginocchio la finanza e le economie mondiali e la pesante coda del 2001, che ha visto i titoli di Stato italiani – che occupano un quarto circa del portafoglio dei fondi pensione - particolarmente sotto pressione. Da sottolineare che concorrono alle posizioni dei fondi pensione non solo il 6,91% di trattamento di fine rapporto ma anche il contributo volontario del lavoratore e il conseguente contributo datoriale.

Costi
Un confronto non è proponibile tra i costi dei fondi pensione e quelli del mantenimento del Tfr in azienda o allo Stato, poiché questi ultimi sono di fatto inesistenti, almeno formalmente. E' differente infatti la fattispecie di garanzia: in caso di default della propria aziende il lavoratore ha la propria posizione garantita dall'Inps, a differenza del denaro affidato ai fondi pensione ovviamente ad eccezione di quello depositato nei comparti garantiti. Tuttavia questa garanzia spesso fatica a tradursi in sollecito versamento del denaro al lavoratore, che spesso deve attendere ben oltre i limiti di legge per la restituzione della propria liquidazione accantonata: la casistica è ampia e il sommarsi delle crisi allunga i tempi. In ogni caso è opportuno sottolineare la bassa onerosità dei fondi pensione a livello internazionale e nei confronti degli altri strumenti di risparmio gestito. I fondi comuni in Italia hanno un costo medio dell'1,42%, ma secondo un'indagine pubblicata da Forbes, considerando le commissioni implicite il costo complessivo sale al 3,17%. I fondi pensione, secondo l'ultima relazione annuale Covip, hanno incidenze nettamente inferiori, soprattutto in caso di lunga adesione.


Flessibilità
Anche in questo caso un esatto confronto tra le anticipazioni chieste dai lavoratori al proprio ufficio del personale e quelle degli aderenti ai fondi pensione non è facile, almeno per quanto riguarda la richieste per spese mediche e anticipo prima casa. Da rilevare, tuttavia, che gli strumenti di previdenza complementare offrono la possibilità di ottenere anticipazioni per il 30% del montante accumulato senza dover addurre alcuna motivazione. Non a caso questa fattispecie è stata particolarmente gettonata da quando la crisi economica ha iniziato a graffiare di più: nel 2015 sono state erogate anticipazioni per 2,1 miliardi di euro a 187 mila iscritti ai fondi pensione, il 70% circa delle quali per “altre motivazioni”
Inoltre, la crisi ha spinto un numero crescente di iscritti a sospendere il proprio flusso contributivo. Un fenomeno che riguarda nel 30% dei casi i lavoratori dipendenti e nel 70% gli autonomi. Numeri che di anno in anno sono cresciuti sempre più

LA CRESCITA DELLE SOSPENSIONI
(Fonte: Covip)

Il bilancio
È appena il caso di sottolineare che un bilancio di questi dieci anni di fondi pensione è parziale e, in ogni caso, è opportuno che ciascun lavoratore tracci un bilancio parametrato al proprio destino lavorativo e previdenziale. Gli elementi di efficienza del sistema della previdenza complementare sono tuttavia evidenti, se confrontati con le scelte alternative. Il punto è che in ogni caso non bisogna dimenticare l’obiettivo finale di uno strumento che, ovunque nel mondo, consente ai lavoratori di accumulare in modo efficiente denaro per il proprio futuro, controllando il rischio, beneficiando di una fiscalità di vantaggio, diversificando i proventi pensionistici futuri e di conseguenza riducendo il rischio previdenziale. I molti che hanno rinviato la propria decisione di aderire hanno reso sempre più in salita il proprio percorso: dieci anni di adesione alla previdenza valgono il 6% di tasso di sostituzione comprensivo del primo pilastro. O detto in altro modo, i 92 euro versati dal 48enne di 10 anni fa salgono a 220 per il 57enne di oggi, per raggiungere lo stesso risultato.

Il problema della scarsa diffusione è individuale ma anche di sistema e già oggi rende debole uno strumento di democrazia finanziaria che – in caso di maggior diffusione – avrebbe consentito una maggiore vigilanza da parte del pubblico dei lavoratori su alcuni temi caldi dei mercati finanziari, crisi bancarie tra tutte. Ma nulla è perduto: la speranza è che questi numeri spingano a nuove adesioni dei singoli e a una maggiore consapevolezza da parte dei policy maker di rilanciare le adesioni – questa volta – su larga scala.

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@maloconte

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