Le entrate tributarie rappresentano l’unico propellente per garantire la sopravvivenza politico-economica del paese in questa difficile congiuntura che registra uno sviluppo bloccato e che evidenzia la necessità di una crescente imposizione fiscale per far fronte ai gravosi impegni degli enti locali e del debito pubblico. Tuttavia, ciò che sconcerta è la constatazione della disarmante condizione in cui versa il sistema tributario italiano, orfano di norme costituzionali eccezion fatta per l’articolo 53 che, da solo, non riesce ad assolvere il suo compito istituzionale. Insomma, dal punto di vista tributario, si ha la sensazione di abitare in una casa che non ha solide fondazioni, perciò non ci si deve meravigliare se al primo inconveniente la casa crolla.
Il caso che segue è solo uno dei vari esistenti, ma rappresenta un tipico esempio di legislazione tributaria italiana campione di sperequazione. La vicenda è figlia di una legislazione applicabile dal 1° luglio 2014 e ancora non troppo nota, che da qui in avanti sarà oggetto di particolare attenzione da parte dei tecnici e dei contribuenti. Una società di capitali distribuisce un dividendo di 100 a tre soci persone fisiche residenti nel territorio italiano che possiedono partecipazioni rispettivamente: socio A al 51%; socio B al 30%; socio C al 19%. I tre soci saranno soggetti Irpef in Italia ed essendo posizionati nell’ultimo scaglione di reddito, con aliquota marginale massima al 43%, il comune buon senso e le buone ragioni di diritto impongono di pensare che ciascuno corrisponda all’erario pro quota la stessa percentuale di tassazione Irpef. Invece no. Con grande stupore si deve constatare che, anzi, l’aliquota Irpef che dovrà pagare il socio C di minoranza che possiede una partecipazione «non qualificata», è largamente superiore di circa nove punti (8,80%) di quella che deve corrispondere il socio di maggioranza A pari al (17,20%) che, possedendo il 51%, non solo percepisce un reddito maggiore ma, altresì, decide anche la distribuzione dei dividendi. Sembra paradossale ma è vero. Infatti il socio C corrisponderà un’aliquota del 26% subendo una ritenuta a titolo di imposta sul dividendo, mentre il socio A corrisponderà un’aliquota inferiore e mai superiore al 17,20%, con l’illegittima sperequazione Irpef dell’8,80 per cento.
Dopo una prima fase di incredulità, ricercata la norma regolatrice, si scopre che il Dl 66/2014 all’articolo 3, comma 1, prevede la generalizzata applicazione della ritenuta a titolo d’imposta del 26% sui redditi di capitale ivi compresi i dividendi «non qualificati»; dimenticando che l’articolo 27 del Dpr 600/73 nella versione tutt’ora vigente continua a riportare l’applicazione di una aliquota a titolo di imposta pari al 12,50 per cento. Al danno anche la beffa: il legislatore del Dl 66/2014 fissa nuove regole e ignora la norma a regime prevista dal Dpr 600/1973 e generalizza l’applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta del 26% senza badare troppo agli effetti. Ancor più grave il fatto che quanto precede ha trovato conferma anche da parte dell’agenzia delle Entrate nella circolare 19/2014 che conferma la tassazione al 26% a titolo di imposta per i dividendi afferenti alle partecipazioni «non qualificate».
Ancora una volta il legislatore tributario è riuscito a violare l’unico articolo “tributario” della Costituzione (articolo 53) sotto il profilo della capacità contributiva. Sembra incredibile, ma è la verità. Come si sarebbe potuta e si può evitare una simile sperequazione? In un modo molto semplice, lasciando al socio «non qualificato» la possibilità di considerare la ritenuta subita a titolo d’acconto e non a titolo di imposta consentendone l’inserimento in dichiarazione e avanzare, se del caso, la richiesta di eventuale Irpef a rimborso. Ultima considerazione: è giusto tassare al 17,80% i dividendi percepiti dai soci di maggioranza al di là della sperequazione provocata dalla tassazione al 26% per i soci «non qualificati» di minoranza. E questa forse è questione non tecnica, ma di politica economica.
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