Le ragioni sono chiare. È la strategia complessiva a restare oscura. Il decreto manovrina contiene, secondo la versione non ancora ufficiale, una novità in tema di processo tributario, con l’innalzamento del limite previsto dall’articolo 17-bis del Dlgs 546/1992 in tema di reclamo, dagli attuali 20mila a 50mila euro.
La giustificazione di un simile intervento è riconducibile alle più volte declamate proprietà deflattive del contenzioso riconosciute all’istituto del reclamo. La novità tornerà applicabile alle controversie relative agli atti notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018. Tutto bene, insomma. In verità, come anticipato, non è chiara la strategia complessiva dell’intervento. Innanzitutto perché non è ancora stata metabolizzata la precedente novità portata dal Dlgs 156/2015, che ha ampliato l’ambito di applicazione del reclamo, estendendolo dalle controversie contro la sola agenzia delle Entrate a quelle contro l’agenzia delle Dogane, l’agente della riscossione e gli enti locali. Tale intervento ha invero trascurato un profilo assolutamente dirimente, quale è la garanzia della (tendenziale) terzietà del soggetto preposto alla gestione del reclamo, presidio di effettività e di efficacia dell’istituto. Perché è chiaro che il reclamo può servire a deflazionare il contenzioso se il riesame dell’atto è fattivo, effettivo e condotto senza condizionamenti. Cosa che sarebbe assicurata affidando il reclamo ad un soggetto completamente terzo rispetto alla parti in causa, ma che può essere almeno approssimata demandando il riesame a strutture e soggetti diversi dagli autori dell’atto oggetto di riesame. Ebbene, una tale esigenza, seppur con tutti i temperamenti noti, è stata assicurata dal legislatore solo per le Agenzie fiscali, le uniche per le quali si prevede che l’esame del reclamo deve essere condotto da apposite strutture diverse ed autonome da quelle che hanno curato l’istruttoria degli atti reclamabili. Per tutti gli altri enti impositori si rinvia invece ai limiti ed alle possibilità offerte dalle rispettive strutture organizzative; limiti e possibilità che, nel caso soprattutto dei comuni, significa quasi certamente non poter offrire le medesime (pur parziali) garanzie. Ecco allora la mancanza di strategia, perché alla fine si amplia l’operatività di un istituto prima ancora di aver rimediato alle criticità più evidenti e di fatto lasciandolo in una terra di mezzo tra istanza di autotutela e procedimento paracontenzioso di definizione della lite. In secondo luogo non è chiaro nemmeno il senso della soglia quantitativa, ed anche questo denuncia un deficit di strategia. Se l’istituto funziona, non si comprende infatti perché deve esserne limitato l’impiego. Soprattutto quando, di fatto, si sostanzia in una mera istanza di autotutela al soggetto autore dell’atto. Certo, diverso sarebbe il discorso se il reclamo fosse affidato ad un soggetto terzo con funzioni e poteri anche di tipo equitativo. Ma per come è congegnato oggi l’istituto la previsione di un siffatto limite non si giustifica. Sicché rischia di non avere molta ragion d’essere neppure il suo innalzamento.
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