Il sipario che cala sugli studi di settore vuole avere il valore simbolico di passaggio verso un migliore rapporto fra Fisco e contribuenti. L’avvento degli studi di settore, a metà degli anni Novanta, doveva archiviare la stagione di parametri e minimum tax con qualcosa di più sofisticato e condiviso. Nacquero strumenti di determinazione dei ricavi che avevano l’ambizione di non “catastizzare” i redditi, ma di definire gli incassi di imprese e lavoratori autonomi in base alle caratteristiche dei settori produttivi. Gli studi presentavano il conto ogni anno, dando l’opportunità di adeguarsi ai ricavi stimati, pena il rischio di accetamenti. Strumenti tanto più contestati quanto più venivano percepiti come mezzi per il recupero di gettito. E sempre sofferti, anche se nel tempo depotenziati, perché visti come un meccanismo che “costringeva” a pagare con poche possibilità di opporsi alle pretese del Fisco.
La storia spiega, dunque, le aspettative. Il cambio di rotta dovrebbe essere pieno. Gli indici del futuro serviranno a dare una “pagella” che potrà ammettere a premi oppure fare accendere una spia rossa accanto al nome di un contribuente e far partire gli alert per mettersi in regola. E non i controlli. In questo senso la novità assume il valore di un manifesto. Ma con almeno due avvertenze che devono servire a evitare le critiche raccolte in passato dagli studi di settore. Da un lato, i nuovi indici condivisi non devono diventare corporativi e poco trasparenti. Dall’altro l’operazione non deve essere un passaggio d’immagine, dietro al quale far riemergere, in qualche forma fantasiosa, i controlli automatici.
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