Le nuove disposizioni sullo smart working arrivano a normare una realtà già diffusa, negli ultimi anni, in molte aziende. Nulla impediva infatti, anche in assenza di una disciplina normativa, di prevedere o pattuire sia con le organizzazioni sindacali sia direttamente con i propri dipendenti la possibilità di lavorare con dotazioni tecnologiche al di fuori dei locali aziendali
Peraltro, l’interesse mediatico che ha accompagnato il (non breve) percorso parlamentare del disegno di legge, ha fatto da volano al diffondersi, negli ultimi due anni, di prassi, policy e accordi sindacali sullo smart working, più o meno anticipatamente conformati ai contenuti del testo legislativo in corso di approvazione.
Sono stati stipulati, tra gli altri, accordi sindacali in materia all’Enel (aprile 2017), all’Eni (febbraio 2017), alle Ferrovie dello Stato (maggio 2017), al Gruppo Zurich (giugno 2016), alla Siemens (giugno 2017), solo per citare i più noti e recenti.
Quasi tutti gli accordi riprendono la definizione di lavoro agile che sarebbe poi stata trasposta nella legge, prendendo così le distanze (talvolta anche in modo esplicito) dal vecchio telelavoro e dagli accordi sindacali che lo disciplinavano.
Tutti gli accordi si preoccupano di “circoscrivere” il lavoro agile ad alcune giornate: un giorno alla settimana (Enel), oppure da 4 a 8 giornate al mese (Fs), o ancora 8 giorni complessivi al mese con un massimo di 2 giorni a settimana (Eni). Alcuni pongono limiti al luogo dove lavorare in modalità smart working, escludendo, ad esempio, i luoghi pubblici o aperti al pubblico, o prevedendo la predeterminazione del luogo nell’accordo individuale.
La maggioranza degli accordi prevede il rispetto dell’orario di lavoro contrattuale e la reperibilità del lavoratore durante il medesimo.
Leggendo in chiave critica le diverse intese, traspare quasi una certa preoccupazione di fronte a una modalità lavorativa potenzialmente in grado di scardinare le tradizionali coordinate spazio-temporali del lavoro subordinato.
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