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Lo psicologo in aula senza il consenso è «violenza privata»

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corte di cassazione

Lo psicologo in aula senza il consenso è «violenza privata»

La presenza dello psicologo scolastico in un’aula di scuola elementare è reato (violenza privata) se non è preventivamente autorizzata dai genitori degli alunni. Non solo, trattandosi di un’attività svolta da pubblico ufficiale, la mancata registrazione nel protocollo dell’istituto, e poi il diniego alle domande dei genitori circa l’esistenza della relazione finale, rappresentano un falso per soppressione.

La Quinta penale della Cassazione (sentenza 40291/17, depositata ieri) ha annullato il proscioglimento del Gip di Arezzo nei confronti di due dirigenti scolastici, due insegnanti e della stessa psicologa, tutti portati a giudizio dai genitori di un bimbo di sette anni con presunti problemi comportamentali. Gli insegnanti avevano chiesto, in particolare, la consulenza del medico durante le ore di lezione per osservare , pur dissimulando l’attività, l’atteggiamento relazionale dell’alunno. Al termine dell’analisi, durata due mesi. il medico aveva stilato una relazione di cui i genitori avevano sentito parlare, solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con l’insegnante. Da lì la richiesta di accesso agli atti, puntualmente negata - come l’esistenza stessa della relazione - dai due dirigenti scolastici passatisi l’incarico a cavallo degli anni interessati.

Secondo il Gup, che aveva disposto il proscioglimento di tutti gli imputati, l’osservazione della psicologa non aveva il carattere di «attività impositiva» richiesto dalla norma (articolo 610 del codice penale), mentre il falso cadrebbe per la mancata qualificazione di atto pubblico rivestito dalla relazione medico/psicologica.

A giudizio della Quinta, però, il giudice preliminare ha frettolosamente archiviato il caso pur in presenza di dubbi e di mancanza di informazioni che solo il dibattimento avrebbe potuto/dovuto risolvere.

Quanto alla violenza privata, l’approccio della Cassazione è profondamente diverso, valutando che la mancanza dell’esplicito consenso da parte di chi sia legittimato a prestarlo (in questo caso, come ovvio, i genitori) «integra certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo». In sostanza, la mancata informativa equivale a un dissenso espresso. Ma anche lo stesso oggetto dell’attività del medico, nel caso specifico incentrata sul singolo bimbo, depone per una chiara «invasione della sfera personale dell’alunno che, come tale, necessitava del preventivo consenso».Sulla natura dell’attività, e quindi della relazione finale, la Quinta non ha dubbi: si tratta di funzioni da pubblico ufficiale che svolge un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico. Pertanto la relazione doveva essere protocollata ed essere poi messa a disposizione dei soggetti interessati, i genitori.

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