La congiuntura che si sta delineando con la legge di bilancio e le tornate elettorali (regionali in Sicilia prima e politiche poi) all’orizzonte potrebbero aprire margini per la proroga del termine della definizione delle liti pendenti, per la quale la domanda di adesione e il versamento della prima o unica rata scadono il 2 ottobre.
E non sarebbe una buona notizia. Per il fatto della proroga, innanzitutto. Ormai ci si sta assuefacendo alle proroghe, in una sorte di vortice perverso dove i termini sembrano congegnati, ab origine, con la consapevolezza che comunque andranno prorogati e con gli operatori rassegnati ad aspettare la proroga. Ma non vi è nulla che più contraddica l’idea stessa della certezza del diritto delle proroghe dei termini: la ragione stessa di un termine dovrebbe essere la sua fissità ed imperatività, caratteri questi che la proroga contraddice patentemente. Quando poi le proroghe diventano un fenomeno a regime, sistematiche, si ingenera una diffidenza generalizzata a rispettare i termini, nella diffusa convinzione che tanto saranno prorogati. Il sistema perde così di credibilità ed autorità. Certo, esistono (purtroppo) i termini ordinatori, ma questa è un’altra storia.
Poi, per il condono. Siamo passati dalla stagione dell’ultimo condono, da non lasciarsi scappare assolutamente perché non ve ne sarebbero stati mai più altri (voluntary «1.0»), a una stagione di condoni ricorrenti (voluntary-bis, con proroga, rottamazione ruoli, definizione agevolata delle liti). E anche questo è un duro colpo assestato alla credibilità del sistema. Si comprende perché, allora, la proroga di un condono non può essere presa come una buona notizia: essa, infatti, diventa la rappresentazione plastica, la cifra esatta, dello sfaldamento irreversibile del nostro sistema tributario. Prorogare un condono, al di là di ogni considerazione, è una negazione manifesta di ogni valore fondante di un patto di convivenza fiscale: dell’eccezionalità del condono – che è iniquo per definizione, premiando chi ha violato le regole - come della cogenza delle regole sui termini. Soprattutto, perché sono tutti condoni (e proroghe) che hanno il respiro corto della misura di mera contingenza finanziaria. Non sono stati introdotti per accompagnare una riforma pensata con l’obiettivo di porre rimedio alle criticità che hanno giustificato/imposto il condono, ma solo per fare cassa. Tant’è che il successo dell’iniziativa è tutto nel gettito che riesce a portare.
Il caso della definizione agevolata delle liti è emblematico. Si è parlato a lungo di giustizia tributaria, della necessità di riformarla, si sono elaborati e presentati progetti (più o meno condivisibili), ma l’unico intervento, estemporaneo, che alla fine è stato approvato è la definizione agevolata delle liti, appunto il condono. Con la conseguenza che quando la definizione sarà conclusa, lascerà la situazione esattamente come l’aveva trovata, le medesime criticità, e sarà solo questione di tempo per un nuovo condono. Con la rottamazione dei ruoli, il discorso è il medesimo. L’auspicio sarebbe che terminasse questa situazione, che nella sua eccezionalità è divenuta oramai regola, e si ricominciasse a pensare a come porre rimedio ai molti problemi del nostro sistema tributario. Finché ci sono i condoni, tutti questi problemi passano in secondo piano, cessa l’esigenza di porvi rimedio, e con le proroghe, semplicemente, si prolunga l’oblio.
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