Cedolare secca sui profitti, tassazione flat sul “fatturato” (giro d’affari), bit tax, diverted profit tax, Google tax. Comunque la si voglia chiamare, l’imposta per i monopolisti dell’economia digitale - da Google ad Amazon, passando per Facebook, Booking, Airbnb, e per tanti altri piccoli e grandi cloni - è ormai in corsia d’emergenza, se non per la Ue intera, almeno per il «comitato dei quattro premier».
Non è un caso che la Francia abbia spinto sull’agenda Ecofin di Tallin di venerdì prossimo per portare sul tavolo una proposta forte e condivisa con Italia, Germania e Spagna. Obiettivo: smuovere l’inerzia sulla ventennale clemenza del fisco nei confronti degli Over-the-top, i multimiliardari della new economy non tassati e neppure tassabili, se non per un infinitesimo dei loro utili crossborder.
La Francia, infatti, dopo la bocciatura della corte amministrativa di Parigi - che a luglio ha annullato la multa di 1,1 miliardi a Google per evasione fiscale - è ancora più in difficoltà dei partner, a cominciare proprio dall’Italia che attraverso la via giudiziaria ha sinora “accompagnato” l’emersione tributaria di Google ed Apple (quasi 700 i milioni patteggiati complessivamente davanti al Tribunale di Milano per uscire dalle rispettive inchieste penali).
Il tema del prossimo Econfin è chiarissimo - tassare l’economia digitale - ma le modalità di approccio e soprattutto le possibilità di approdo sono tutt’altro che certe.
Sotto il primo profilo, che cosa fare, il confronto è aperto da anni con risultati alterni. Mancando un’iniziativa comune, regolarmente stroncata dagli Stati che beneficiano dell’anarchia (tributaria) digitale - dagli Usa ai paradisi fiscali “legali” presenti in buon numero anche dentro la stessa Ue - la fantasia dei legislatori o più spesso dei governi si è espressa liberamente.
Il Regno Unito già dal 2015 ha varato la diverted profit tax, fondata sulla presunzione che l’attività svolta sul territorio generi profitti tassabili, a prescindere dalla contabilizzazione che ne fa la multinazionale (“comportamenti elusivi”). La Dpt colpisce i profitti generati in Gran Bretagna con un’aliquota (25%) di 5 punti superiore alla corporate tax, lasciando al contribuente-società l’onere di dimostrare l’eventuale “abuso” dell’amministrazione. L’India dall’anno successivo (2016) ha varato l’imposta unica del 6% su tutte le cessioni di beni e servizi effettuate da un non-residente, l’Australia ha intenzione di estendere la tassa sui beni e servizi del 10%, (Goods and Service Tax, Gst), l’equivalente locale dell’Iva anche ai “beni immateriali” come contenuti digitali, giochi e software, fra cui anche i servizi di piattaforme di streaming online. L’Italia, nel frattempo, dopo il “go and stop” del 2013 - quando il governo bloccò la web tax proposta da Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera - è tornata sull’argomento con il correttivo alla manovra di giugno, quando ha introdotto, sempre Boccia promotore, una forma di compliance volontaria per i big digitali con fatturato superiore a 50 milioni.
Il limite di tutte queste iniziative “spot” è duplice: non solo negoziale, considerato che gli Over-the-top spesso “valgono” (e cioè pesano più) del Pil dei Paesi chi li vorrebbero regolare, ma anche sistematico, perché rischia di creare nuovi interstizi regolamentari dentro cui far crescere il dumping fiscale dei soliti noti - schema coltivato fino ad oggi con successo dai grandi elusori.
Da qui la proposta unitaria dei quattro Paesi leader della Ue, proposta che si muove su un presupposto chiaro: i big della rete devono avere un trattamento fiscale omogeneo almeno dentro l’Unione. Sì, ma quale? Tassare i profitti ad aliquota fissa (sul modello britannico), o piuttosto colpire con un’aliquota più bassa (5-6%) l’intero giro d’affari, cioè il fatturato “nazionale” delle Big? I puristi del diritto tributario rabbrividiscono al solo pensiero della seconda ipotesi - l’imposizione diretta da che mondo è mondo pesa sugli utili/guadagni, non sul fatturato - ma il tema di fondo delle due impostazioni resta comunque la possibilità del fisco di conoscere e di quantificare l’attività economica maturata. Qui entrerebbe in gioco proprio la tecnologia, considerato che la ricostruzione del fatturato nazionale passerebbe attraverso il “traffico digitale” svolto nel Paese. Per esempio, criteri di imputazione a reddito potrebbero essere il numero di interrogazioni a un motore di ricerca, oppure il numero di clic su una piattaforma market, o in alternativa anche il valore unitario attribuito a ogni singolo utente “tracciato” - meccanismo peraltro già utilizzato da alcuni Big per costruire i bilanci deconsolidati.
Un’opzione alternativa, ma che alla vigilia di Tallin appare più debole, è quella di rafforzare il concetto tradizionale di «stabile organizzazione» (da sempre combattuto dai Big, perché presupposto dell’applicazione delle imposte dirette nazionali) , attribuendo tale status di diritto a tutti gli operatori della rete presenti nel Paese. In sostanza secondo questo filone più tradizionalista - coltivato con successo proprio dalle inchieste della Procura di Milano contro Google, Apple e ora Amazon, e recepito anche nella web tax italiana della scorsa estate - i Big della rete per operare in Italia devono riconoscere una loro stabile presenza («organizzazione») aprendo una partita Iva. Con un duplice effetto positivo, non solo sulle tasse vere e proprie (ogni transazione risulterebbe eseguita e contabilizzata in Italia) ma anche sulle imposte indirette (Iva), incorporate a quel punto nel prezzo della transazione stessa. Anche perché, se è vero che il contratto è digitale, cioè tendenzialmente apolide, i beni/servizi vengono ormai spesso prodotti e consumati all’interno del Paese di residenza dell’acquirente. Quindi perché un libro (o una camicia) totalmente made in Italy deve pagare ancora l’Iva (benevola) del Lussemburgo, e nessuna tassa il venditore?
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