Negli ultimi anni sono stati compiuti enormi passi in avanti sul terreno della conoscenza dei fenomeni legati all’evasione fiscale. Forse non sappiamo ancora tutto, ma certamente sappiamo moltissimo. Sappiamo, ad esempio, che il «tax gap» – ovvero la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati – ammonta a 109,5 miliardi (anno 2015), di cui 11,6 per le sole entrate contributive. Sappiamo che l’Iva è l’imposta più evasa, con 35,5 miliardi che mancano all’appello. Sappiamo che l’evasione Iva produce “trascinamenti” sull’evasione di altri tributi: Irap, Ires e Irpef per lavoro autonomo e impresa lasciano sul campo la bellezza di altri 48,8 miliardi all’anno.
Sappiamo che la propensione a evadere è del 23,5%, ma se si escludono i lavoratori dipendenti il risultato cambia di parecchio, perché ogni 100 euro di tasse e contributi teorici ne vengono mediamente evasi 35. Con un dato ancor più sconcertante riferito alla sola Irpef da lavoro autonomo e impresa: ogni 100 euro dovuti ne sfuggono 67,6.
È interessante leggere i numeri sul tax gap per gli anni 2010-2015 contenuti nella «Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva», presentata a settembre dalla commissione presieduta da Enrico Giovannini e poi aggiornata con i nuovi dati Istat sui conti nazionali. Numeri impietosi che mostrano una preoccupante stabilità del tax gap: la media nell’ultimo triennio osservato si ferma a 109 miliardi, in linea con il 2015 e solo in leggera flessione rispetto al picco di 110,7 miliardi del 2014.
Un andamento che suggerisce come non sia ancora partito un percorso virtuoso capace di contenere l’evasione almeno ai livelli fisiologici di altri Paesi. Ogni anno aumentano i risultati dell’azione di contrasto – 20,1 miliardi è l’ultimo dato – ma la montagna del tax gap resta tutta da scalare. Segno di come una strategia tesa a scalfire lo zoccolo duro dell’evasione, per raggiungere risultati apprezzabili e duraturi, abbia bisogno di tempi lunghi dentro un cammino lineare e coerente.
E questo è un primo problema. Se guardiamo agli ultimi 15-20 anni, non possiamo non rilevare come le scelte anti evasione volute dai governi siano passate attraverso svariate fasi contraddittorie. Dagli elenchi clienti-fornitori alle limitazioni sull’uso del contante sino al frequente ricorso a condoni e sanatorie, è stato tutto un via vai di norme a corrente alternata. Negli ultimi 3-4 quattro anni, la scelta dell’Esecutivo è stata di puntare su un approccio che non vede il contrasto dell’evasione confinato alla sola area della repressione ma muove dal presupposto che il contribuente debba essere affiancato e sostenuto negli obblighi fiscali. La parola chiave è diventata “prevenzione”. Che, come si legge nella nota di accompagnamento al Def, significa anche utilizzare strumenti informatici e incrocio dei dati per favorire la “spontanea” emersione di basi imponibili, per invitare i contribuenti a correggere i propri errori (le lettere-segnalazioni) e solo successivamente per effettuare i controlli.
Inoltre, si è rafforzata la convinzione che molto di più si debba fare per contrastare l’evasione Iva. La via scelta è, da un lato, il maggior ricorso all’utilizzo di split payment e reverse charge, che impediscono i “salti” nel versamento dell’Iva e, dall’altro lato, una maggior disponibilità di dati (liquidazioni Iva e fatture emesse e ricevute) per intercettare eventuali incongruenze da segnalare prontamente ai contribuenti. Certo, non si tratta di scelte indolori, perché tanto le “inversioni” dell’imposta quanto la richiesta di nuovi dati comportano costi pesantissimi per gli operatori, che di fatto anticipano l’Iva allo Stato e devono poi attendere il rimborso, e finiscono per penalizzare ulteriormente proprio i contribuenti che evasori non sono, anche con un aggravio di adempimenti.
Ma torniamo al tax gap. Perché non si riduce nonostante negli ultimi anni l’agenzia delle Entrate abbia recuperato tra i 15 e i 20 miliardi dalla lotta all’evasione? Per provare a dare una risposata possiamo partire da una distinzione contenuta nella Relazione della commissione Giovannini. Gli studiosi classificano due tipi di tax gap: uno che deriva da omessa dichiarazione (assessment gap), l’altro che deriva da omessi versamenti (collection gap). Nel primo caso, c’è la volontà, l’intenzione di evadere. Nel secondo, non si paga perché non si hanno i mezzi (per esempio, negli anni della crisi) oppure si commettono errori. In entrambi i casi si tratta di comunque di evasione e la commissione Giovannini, dove possibile, calcola il tax gap distinguendo tra queste due componenti e lo quantifica al lordo del recupero successivo di entrate per accertamenti.
Nel periodo 2010-2015 il gettito mancante riferito a Irpef da lavoro autonomo e impresa, Ires, Irap, Iva, locazioni e canone Rai è stato pari in media a 87,3 miliardi all’anno. Tuttavia, ben 12,8 miliardi sono imputabili al “collection gap”, ovvero omessi versamenti ed errori, mentre l’”assessment gap”, ovvero omesse dichiarazioni e frodi, risulta di 74,6 miliardi di euro.
E qui veniamo a un secondo problema. La sensazione è che le strategie anti evasione finora messe in campo dai governi abbiano il merito di rappresentare un ottimo argine per il “collection gap”, errori, sviste, omissioni, errate interpretazioni. Un gap che per sua natura si “ripropone” ogni anno, in relazione al ciclo economico, ma che non può essere azzerato. Qui l’azione di recupero sembra essere efficace e si tratta di un’attività importante, con un rapporto costi-efficacia molto positivo per l’amministrazione. Un’attività che guarda comunque a una significativa zona di potenziale evasione, generata da comportamenti che è possibile intercettare con molti strumenti ben rodati: incroci di dati, controlli automatizzati, lettere-segnalazioni per la compliance e così via.
Peraltro, guarda caso, i 13 miliardi del “collection gap” sono una grandezza vicina a quella del recupero di evasione di questi anni che, sottratte le poste straordinarie come la voluntary disclosure oppure la regolarizzazione delle cartelle, è fatta in gran parte di versamenti volontari, controlli automatizzati e “risposte positive” alle lettere di compliance. Forse si tratta solo una coincidenza, che andrebbe però esplorata.
E gli altri 74,6 miliardi dell’”assessment gap”? Sono stabili nel tempo. È ovvio che anche qui arriva l’attività di controllo dell’amministrazione, ma il recupero non diventa strutturale. Il che fa capire una volta di più che sull’evasione non esistono scorciatoie, che le azioni di contrasto si fanno con politiche coraggiose, costanti nel tempo, non vessatorie verso i contribuenti e improntate all’equità. Solo così le strategie per ridurre il tax gap possono aspirare a produrre effetti permanenti.
Il banco di prova è dietro l’angolo: dal prossimo anno debutterà la fatturazione elettronica obbligatoria anche nei rapporti tra privati. Sarà un passaggio importante, che secondo alcuni potrà davvero segnare una svolta nelle dinamiche anti evasione. Ma non sarà irrilevante il modo in cui verrà gestita e accompagnata l’introduzione di questo nuovo adempimento, che spaventa moltissimo imprese e professionisti. C’è tempo per farlo bene, per correggere quel che non funziona e per evitare che la fattura elettronica si trasformi nell’ennesimo boomerang, anzi, nell’ennesimo incubo per i contribuenti.
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