Il livello della pressione fiscale è il risultato di un mix di elementi. Tutti fondamentali e decisivi nel determinare il peso reale di tasse e imposte. Il prelievo, certo, dipende dalla misura delle aliquote legali. Ma la pressione tributaria effettiva è fortemente influenzata da alcuni elementi di contesto che, per così dire, quel “livello” possono addirittura contribuire a far crescere.
Si punta l’indice, giustamente, sulla burocrazia fiscale, sul costo degli adempimenti, sui costi di incertezza e instabilità delle regole, ma si finisce talvolta per sottovalutare un altro “costo” non proprio occulto: quello di un sistema di giustizia tributaria davvero alle corde.
Sarebbe un errore pensare che in questi anni “non sia stato fatto nulla” per tamponare le inefficienze e i ritardi del contenzioso tributario. Al contrario, è arrivato il reclamo-mediazione esteso ora alle controversie fino a 50mila euro (peraltro, non esente da critiche perché affidato all’amministrazione e non a un soggetto terzo); si è dato più spazio agli istituti deflattivi del contenzioso, come nel caso della conciliazione anche in secondo grado; si è cerato di rimediare ad alcune asimmetrie, vedi le norme sull’esecutività della sentenza che pongono le parti sullo stesso piano. E si potrebbe continuare.
Il punto è che si sono fatte molte cose per “curare” il contenzioso, ma poco o nulla per il processo tributario vero e proprio, che sembra continuare a soffrire dei malanni di sempre.
Le soluzioni di questi ultimi mesi – un’operazione di chiusura agevolata delle liti pendenti e il reclutamento di 50 ex magistrati togati per favorire lo smaltimento dell’arretrato in Cassazione – non sembrano onestamente in grado di cambiare lo scenario. E la svolta telematica, pur importante, da sola non può bastare.
L’inaugurazione dell’anno giudiziario, oggi in Cassazione, confermerà molte indicazioni che conosciamo. Ad esempio, già dall’ultima rilevazione statistica sul terzo trimestre 2017 si può stimare che è proseguito il calo dei nuovi ricorsi, almeno in primo grado, dove si scenderà per la prima volta ben al di sotto di quota 300mila. Meno ricorsi e meno arretrato (non in Cassazione), probabile effetto di mediazione, istituti deflattivi e attività di compliance.
Gli stessi dati spingono a dire che il valore delle cause pendenti in primo e secondo grado si aggiri intorno ai 50 miliardi. Importo monstre che raddoppia sommando le cause pendenti in Cassazione. Cento miliardi che non passano inosservati, visto che nel programma elettorale del centro-destra è chiara l’intenzione di arrivare a una «chiusura di tutto il contenzioso e delle pendenze tributarie». Vedremo. Per ora vale ricordare che a gestire il destino di 50 miliardi sono 3mila giudici, metà togati e metà onorari. Tutti in part time e non proprio ben pagati.
Numeri a parte, resta una giustizia tributaria in uno stato di limbo. Basta parlare con i professionisti che frequentano le stanze delle commissioni per averne un’idea. L’”alea”, dicono in molti, è la cosa che più disturba, perché tra i giudici ci sono sì ottime professionalità ma anche professionalità non adeguate a decidere liti che valgono centinaia di migliaia di euro, quando non milioni.
Questa “alea” si riflette nei giudizi. Non c’è ambito come la giustizia tributaria che debba confrontarsi con una volatilità tanto elevata di orientamenti e interpretazioni su liti identiche. Il caso dell’Irap dei piccoli contribuenti ne è un esempio lampante: il legislatore ha le sue colpe, ma i giudici, a tutti i livelli, ci hanno messo del loro per rendere irrisolvibile il dilemma «pago l’Irap-non pago l’Irap». E non è un caso che Cesare Glendi, un’autorità in questo settore, abbia sottolineato la necessità di «un assetto organizzativo, normativamente disciplinato, in grado di esprimere una effettiva nomofilachia specialistica, senza i contrasti interpretativi e le incoerenze», che alimentano il contenzioso.
Invece, non si è fatto nulla, sempre in attesa di una riforma mai arrivata: tavoli, promesse, addirittura un annuncio nel Programma nazionale riforme allegato al Def 2017, dove si accennava – insieme al completamento del passaggio al processo telematico – a una riforma del processo tributario e degli organi della giurisdizione tributaria.
E ora, che fare? Durante la legislatura sono stati presentati alcuni progetti di riforma, talvolta radicali (sezioni specializzate nei tribunali e giudici a tempo pieno) altre volte tesi a confermare, pur in uno scenario rinnovato, l’assetto attuale.
In ogni caso, si può ripartire dalla delega fiscale del 2014, che sulla riforma del contenzioso conteneva indicazioni di buon senso, rimaste inattuate. Una soluzione parziale, ma in grado di rispondere a molte criticità. A partire dalla necessità di rafforzare la qualificazione professionale dei giudici. Lo si può fare in molti modi: con giudici togati specializzati oppure si può puntare sulla formazione per rendere più “professionali” i giudici attuali. L’importante è che qualche cosa si faccia.
Sicuramente, va poi rivisto il trattamento economico dei giudici: se vogliamo una buona giustizia tributaria, dobbiamo rassegnarci all’idea che nessuno gradisce fare un lavoro importante in cambio di pochi spiccioli. Si può inoltre riconsiderare la composizione monocratica dell’organo giudicante per le controversie di piccola entità (le più numerose): è singolare che per una violazione fiscale che comporti anche un reato, il contribuente venga giudicato da un collegio di tre giudici per la parte fiscale e dal giudice unico per il penale.
Infine, il problema più delicato: rafforzare, diceva la delega, «la tutela giurisdizionale del contribuente, garantendo la terzietà dell’organo giudicante». Tema ostico e complesso, che prima o poi si dovrà affrontare, perché sono evidenti i limiti di un sistema nel quale il “garante dell’equità”, il ministero dell’Economia, è anche il “controllore” dell’amministrazione, ovvero una delle parti del processo.
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