Non è contraria al diritto Ue la soglia di punibilità fissata a 250mila euro per i reati Iva prevista in Italia. Questo l’esito della sentenza della Corte Ue nella causa pregiudiziale C-574/15, Mauro Scialdone.
I fatti
Mauro Scialdone, amministratore della Siderlaghi Srl, è sottoposto a procedimento penale davanti al Gip del Tribunale di Varese ai sensi del decreto legislativo 74/2000, per non avere versato entro il termine di legge l'Iva dovuta per l'anno 2012 in base alla dichiarazione annuale, ammontante a circa 175 mila euro.
La Siderlaghi, dopo la contestazione dell'illecito da parte dell'agenzia delle Entrate, aveva optato per il pagamento rateizzato dell'Iva entro 30 giorni dall'apposita comunicazione dell'Agenzia medesima, ciò che avrebbe consentito una decurtazione delle sanzioni amministrative.
Il 29 maggio 2015, il pubblico ministero presso il Tribunale di Varese ha esercitato l'azione penale contro il signor Scialdone, chiedendo al GIP l'emissione di un decreto penale di condanna all'ammenda di 22 500 euro.
Il 22 ottobre 2015 è entrato in vigore il decreto legislativo 158/2015, che ha modificato il decreto legislativo 74/2000.
Per quanto interessa nella specie, la nuova normatIva prevede una causa di non punibilità, applicabile retroattIvamente al signor Scialdone perché norma più favorevole, consistente nel non superamento della soglia di 250 000 euro di debito fiscale. Con la normatIva precedente, la soglia di non punibilità era determinata in 50mila euro.
Inoltre, la nuova normatIva ha introdotto un'ulteriore causa di non punibilità (anch'essa applicabile retroattIvamente al signor Scialdone), integrata dal pagamento, prima del dibattimento di primo grado, del debito tributario, delle sanzioni amministrative e degli interessi (anche se determinati a seguito di conciliazione con l'amministrazione fiscale). Tale pagamento in via amministratIva, nella normatIva precedente, non comportava la non punibilità dell'imputato ma solo l'applicazione di un'attenuante.
Il Gip di Varese s'interroga sulla compatibilità con il diritto dell'Unione di tali modifiche legislative a favore dell'imputato. In sostanza, egli chiede alla Corte, se i Trattati, la direttIva Iva e la convenzione Pif, ostino a una normatIva nazionale che, da un lato, prevede che l'omesso versamento dell'Iva acquisti rilievo penale solo se l'ammontare dell'imposta dovuta supera i 250 000 euro e, d'altra parte, prevede una soglia d'incriminazione di (soli) 150 000 euro per l'omesso versamento dell'imposta sui redditi da parte del sostituto di imposta, con possibile violazione del principio di equIvalenza.
Con l'odierna sentenza, la Corte ricorda che la direttIva Iva non armonizza le sanzioni applicabili in materia di Iva: tale materia è quindi di competenza degli Stati membri, i quali hanno l'obbligo di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione rispettando il principio di effettività[3] (le misure adottate devono essere dissuasive, proporzionate ed effettive) e il principio di equIvalenza (gli interessi finanziari dell'Unione vanno protetti almeno quanto gli interessi finanziari dei singoli Stati: a fronte di illeciti analoghi, sanzioni analoghe).
Ciò premesso in linea generale, la Corte osserva che l'omesso versamento dell'Iva di per sé, soprattutto se preceduto da una corretta dichiarazione, non costituisce frode. Così, se delle sanzioni penali possono ritenersi indispensabili per frodi gravi in materia di Iva, le stesse non sono necessarie, a parità d'importo, per la mera omissione del versamento dell'Iva.
La Corte ribadisce che anche per l'omesso versamento dell'Iva occorrono sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, trattandosi comunque di un comportamento illecito (il concetto di “attività illecite lesive degli interessi dell'Unione” va inteso in senso lato, ricomprendente anche le omissioni).
Tenuto conto del fatto che la legislazione italiana prevede, per l'omesso versamento dell'Iva (sotto i 250mila euro), una sanzione amministratIva pari al 30 % dell'imposta dovuta, che sono previsti degli interessi di mora da versare all'amministrazione fiscale, che il contribuente può beneficiare di una riduzione della sanzione in funzione del momento in cui regolarizza la propria situazione, il principio di effettività appare rispettato. Tali considerazioni valgono anche se le sanzioni sono inflitte soltanto alla persona giuridica (società) e non ai suoi amministratori o dirigenti.
Pertanto, il principio di effettività non osta a una normatIva, come quella italiana, che sanziona penalmente l'omesso versamento Iva soltanto quando l'ammontare dell'imposta supera i 250mila euro.
Quanto al principio di equIvalenza, la Corte osserva che il reato di omesso versamento dell'Iva (reato lesivo degli interessi dell'Unione) non è comparabile all'omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d'imposta (reato lesivo degli interessi dell'Italia). Infatti, il sostituto d'imposta può rilasciare a favore del contribuente una certificazione di avvenuto pagamento dell'imposta alla fonte, consentendogli di farla valere davanti all'amministrazione fiscale. Il contribuente è liberato dall'obbligo di pagamento di tale imposta persino se la certificazione non risponde al vero (e cioè persino se il sostituto d'imposta non ha in realtà versato le ritenute all'Erario). In queste condizioni, è evidente che l'omesso versamento dell'imposta sui redditi, reato commesso dal sostituto d'imposta (soggetto a cui è riconosciuta una capacità certificatIva), è più difficile da accertare rispetto all'omesso versamento dell'Iva, reato commesso direttamente dal contribuente.
Pertanto, il principio di equIvalenza non osta a una normativa, come quella italiana, che fissa soglie di punibilità diverse per l'omesso versamento Iva (250mila euro) e per l'omesso versamento delle ritenute (150mila euro).
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