L’Agenzia delle entrate, mettendo in rete nel 2008, le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti, relative al 2005, ha violato la loro privacy. Il fisco on line aveva riguardato tutti, dal vicino di casa al Vip fino al collega d’ufficio, dividendo l’Italia tra favorevoli e contrari, ma incassando un numero di accessi che aveva mandato in tilt i server. Disse di non vedere alcun problema l’allora vice ministro dell’Economia Vincenzo Visco, parlò invece di “colonna infame” il comico-blogger Beppe Grillo. Contro la “pubblicità” anche le associazioni dei consumatori. A far finire la “festa” era arrivato a stretto giro lo stop del Garante della privacy.
Oggi la sentenza della Cassazione che conferma la violazione della legge sulla privacy. La decisione dell’Agenzia, a parere dei giudici, é andata oltre l’esigenza di trasparenza dettata dalla norme, codice dell’amministrazione digitale compreso.
La Suprema corte, con la sentenza 15075, come primo passo ha bollato come inammissibile il ricorso del Codacons, per poi respingere quello dell’Agenzia delle entrate. L’associazione dei consumatori chiedeva 20 miliardi di euro di risarcimento, per i danni patrimoniali e non, cagionati ai contribuenti. Una categoria che, secondo il Tribunale, il Codacons non può rappresentare essendo il suo raggio d’azione limitato agli utenti e ai consumatori. Impossibile anche proporre azioni semplicemente risarcitorie o una class action non applicabile al periodo in cui sono state commesse le violazioni. Più argomentati i no alle tesi dell’Agenzia delle entrate “punite” con una multa “light” di 6 mila euro.
Secondo la ricorrente, la predisposizione degli elenchi nominativi dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi era già prevista dall’articolo 69 del Dpr 600/1973. Elenchi che in passato erano solo in forma cartacea, e a disposizione per la consultazione sia negli uffici dell’Agenzia sia nei Comuni. Il passaggio al mezzo telematico era il risultato della norma introdotta con il codice dell'amministrazione digitale varata nel 2005, che tendeva ad assicurare la fruibilità dell’informazione in modalità digitale utilizzando le più appropriate tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Di parere diverso la Cassazione, la quale ricorda che il Codice dell’amministrazione digitale, nell’incentivare l’uso delle tecnologie aveva fatto salvi i limiti di conoscibilità fissati dalle leggi e dai regolamenti, oltre che dalle norme in tema di protezione dei dati personali.
Il Garante, chiariscono i giudici, non dunque censurato la pubblicazione pura e semplice, ma il modo in cui i dati sono stati diffusi: in maniera difforme sia da quanto stabilito del Dpr del ’73, sia dal Codice della privacy. La norma poneva dei limiti territoriali, relativi ai comuni, e temporali. Con la rete i dati sono diventati visibili in ogni parte del mondo e per un tempo indeterminato attraverso i motori di ricerca. Tutto ciò non poteva essere fatto senza la preventiva informazione e il consenso dei diretti interessati. E il fine, della lotta alla frode fiscale e all’evasione, per i giudici non giustifica il mezzo.
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