Sfogarsi su Whatsapp può far bene al cuore ma rischia di essere anche estremamente pericoloso, soprattutto quando le confidenze riguardano questioni lavorative o si svolgono durante l’orario di lavoro. I giudici stanno infatti allargando le maglie dell’utilizzo in giudizio delle conversazioni fra privati. E ad entrare sempre più nei processi sono proprio gli scambi di messaggi su Whatsapp, tra gruppi o con singoli destinatari: tutti possono dar luogo a licenziamenti o sanzioni disciplinari.
Ma i messaggi possono essere utilizzati anche dal lavoratore per dimostrare l’esistenza di un’attività di tipo subordinato o la comunicazione dell’assenza per malattia.
I rapporti di lavoro
I messaggi Whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari
della chat. Ha quindi valore giudiziario la registrazione di una chat Whatsapp inviata da un dirigente alla moglie dell’amministratore
unico che denota un atteggiamento ostile verso l’azienda e giustifica il licenziamento. (Tribunale di Fermo, decreto 1973
del 2017). Ed è legittima anche la produzione delle chat inviate da un medico del pronto soccorso ai colleghi. Se qualcuno
fa la “spia” e recapita i contenuti al dirigente, questi possono essere utilizzati per legittimare la sanzione disciplinare
(Tribunale di Vicenza, sentenza del 14 dicembre 2017 n. 778).
I giudici hanno inoltre ritenuto legittima l’esclusione da parte di una cooperativa e, di conseguenza, il licenziamento disciplinare
di un socio lavoratore che, in una chat su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività produttiva, fomentando forme di
protesta anche da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo sentenza del 7 giugno 2018 n. 424).
Ma il Tribunale di Roma (sentenza n. 3478 del 4 maggio scorso) ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice
colpevole di aver usato un tono di sfida nel file vocale inviato nella chat di gruppo su Whatsapp della quale faceva parte
anche il proprio superiore. Per il giudice contano le parole usate e non le intenzioni, ed è proprio la trascrizione del file
vocale a salvare la lavoratrice, acquisita in giudizio come prova documentale.
Nel bene e nel male le chat assumono quindi un valore dirimente e, in genere, il diritto di difesa prevale sulla riservatezza
altrui. Così i messaggi Whatsapp possono fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro, ma per ottenere le differenze
retributive occorre che dal tenore degli stessi emergano elementi precisi e concordanti (Tribunale di Milano, sentenza del
27 aprile 2018 n.1148). I messaggi Whatsapp inchiodano il datore anche ai vincoli della subordinazione quando siano comprovati
«gli ordini e le direttive anche sull'orario di lavoro» (Tribunale di Vercelli, sentenza n. 110 del 31 luglio 2017).
L’utilizzabilità in giudizio
La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto
di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli
utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta
causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in
materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.
Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati,
dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione
delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella
off line.
Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere
utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.
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