Il licenziamento di un primario cattolico da parte di un ospedale cattolico per aver contratto un secondo matrimonio dopo
un divorzio può costituire una discriminazione vietata fondata sulla religione
Questa la decisione della Corte Ue presa con la sentenza C-68/17.
Infatti, il requisito per un primario cattolico di rispettare il carattere sacro e indissolubile del matrimonio secondo la concezione della Chiesa cattolica non sembra costituire un requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato, circostanza tuttavia che spetta alla Corte federale del lavoro di verificare nel caso di specie.
La storia
JQ, di confessione cattolica, ha lavorato in qualità di primario del reparto di medicina interna di un ospedale gestito dall'Ir,
una società tedesca a responsabilità limitata soggetta alla vigilanza dell'Arcivescovo cattolico di Colonia (Germania).
L'IR, quando ha avuto notizia del fatto che JQ, dopo il divorzio dalla prima moglie con la quale era sposato secondo il rito cattolico, si era risposato civilmente, senza che il primo matrimonio fosse stato annullato, lo ha licenziato.
Secondo l'IR, JQ, contraendo un matrimonio nullo per il diritto canonico, è in tal modo gravemente venuto meno agli obblighi
derivanti dal contratto di lavoro.
Tale contratto di lavoro rinvia al regolamento di base del servizio ecclesiastico nell'ambito dei rapporti di lavoro nella
Chiesa (GrO 1993) , che prevede che la conclusione di un matrimonio invalido secondo il diritto canonico da parte di un lavoratore
cattolico con funzioni direttive costituisce una grave violazione degli obblighi di lealtà e giustifica il suo licenziamento.
Infatti, secondo l'etica della Chiesa cattolica, il matrimonio religioso riveste un carattere sacro e indissolubile. In tale
contesto, si deve osservare che la costituzione tedesca conferisce alle chiese e alle istituzioni ad esse collegate un diritto
di autodeterminazione, che permette loro di gestire liberamente i propri interessi entro certi limiti.
JQ ha contestato il suo licenziamento dinanzi ai giudici del lavoro tedeschi sostenendo che il suo secondo matrimonio non
costituiva un motivo valido per il licenziamento. Secondo JQ, il suo licenziamento violerebbe il principio di parità di trattamento
giacché, ai sensi del GrO 1993, per i primari di confessione protestante o atei un secondo matrimonio non avrebbe prodotto
alcuna conseguenza giuridica sul loro rapporto di lavoro con l'IR.
È in tale contesto che il Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro, Germania) chiede alla Corte di giustizia di interpretare
la direttiva sulla parità di trattamento , che vieta, in linea di principio, che un lavoratore sia discriminato in funzione
della sua religione o delle sue convinzioni personali, pur consentendo, a certe condizioni, alle chiese e alle altre organizzazioni
la cui etica sia fondata sulla religione o le convinzioni personali di chiedere ai loro dipendenti un atteggiamento di buona
fede e di lealtà nei confronti della propria etica.
Con la sua sentenza odierna, la Corte dichiara che la decisione di una chiesa o di un'altra organizzazione, la cui etica sia
fondata sulla religione o le convinzioni personali e che gestisce una struttura ospedaliera (costituita in forma di una società
di capitali di diritto privato), di sottoporre i suoi dipendenti operanti a livello direttivo a obblighi di atteggiamento
di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica diversi in funzione della confessione o agnosticismo di tali dipendenti,
deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo .
Nel corso di siffatto controllo, il giudice nazionale adito deve assicurarsi che, tenuto conto della natura delle attività
professionali interessate o del contesto in cui sono esercitate, la religione o le convinzioni personali costituiscano un
requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato rispetto all'etica in questione.
Sebbene spetti, nella fattispecie, al Bundesarbeitgericht determinare se tali requisiti siano soddisfatti, la Corte osserva
che l'adesione alla concezione di matrimonio predicata dalla Chiesa cattolica non appare necessaria per l'affermazione dell'etica
dell'IR tenuto conto dell'importanza delle attività professionali svolte da JQ, cioè la prestazione, in ambito ospedaliero,
di consulenze e cure mediche nonché la gestione del reparto di medicina interna, di cui era il primario. Essa non appare quindi
essere una condizione essenziale dell'attività professionale, il che è corroborato dalla circostanza che posti analoghi sono
stati affidati a dipendenti che non sono di confessione cattolica e, pertanto, non sono vincolati dalla stesso requisito di
atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell'etica dell'IR.
La Corte rileva altresì che, considerato il fascicolo presentatole, il requisito in questione non risulta giustificato. Spetta
tuttavia al Bundesarbeitgericht verificare se l'IR abbia dimostrato che, alla luce delle circostanze del procedimento principale,
sussista un rischio di lesione probabile e serio per la sua etica o il suo diritto all'autonomia.
Per quanto riguarda la problematica legata al fatto che una direttiva dell'Unione non ha, in linea di principio, effetto diretto
tra privati ma richiede una trasposizione nel diritto nazionale, la Corte ricorda che spetta ai giudici nazionali interpretare
il diritto nazionale che traspone la direttiva per quanto possibile conformemente a quest'ultima.
“La Corte afferma a tale riguardo che il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione”
Nel caso in cui risultasse impossibile interpretare il diritto nazionale applicabile (nella fattispecie, la legge generale
tedesca sulla parità di trattamento) in maniera conforme alla direttiva sulla parità di trattamento come interpretata dalla
Corte nella sentenza odierna, la Corte precisa che un giudice nazionale, investito di una controversia tra due privati, deve
disapplicare il diritto nazionale.
La Corte afferma a tale riguardo che il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell'Unione ora sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ed è di per sé sufficiente a conferire ai privati un diritto invocabile come tale nell'ambito di una controversia che li veda opposti in un settore disciplinato dal diritto dell'Unione.
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