![Palazzo dei Marescialli (Agf)](https://i2.res.24o.it/images2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/2018/10/04/Norme%20e%20tributi/ImmaginiWeb/Ritagli/palazzo-marescialli%20-AGF_EDITORIAL_1634349-kffG--835x437@IlSole24Ore-Web.jpg)
Per evitare la sanzione disciplinare alla toga che usa espressioni offensive, non basta che il destinatario dichiari di non
sentirsi offeso: il bene tutelato è, infatti, il prestigio della magistratura. Partendo da questo principio la Cassazione
ha confermato la condanna all’ammonimento inflitta dal Csm, nel gennaio di questo anno, ad una Pm per un post su Facebook,
finito sui giornali, nel quale nel 2015 aveva definito l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino un “beota”, mentre erano in
corso indagini proprio sull’amministrazione della Capitale.
Ad avviso della Suprema corte la decisione emessa dall’organo di autogoverno dei giudici è corretta. Palazzo dei marescialli
ha basato il suo verdetto sulla capacità di diffusione del post “indirizzato a tremila amici” con la possibilità, che si
è poi concretizzata, che fosse ripreso da altri media, oltrechè sul carattere oggettivamente offensivo del messaggio con il
quale nella sostanza si dava del beota al primo cittadino. Per i giudici il comportamento è tale da compromettere l’immagine
della magistratura. Sul suo profilo personale su Fb, prima di lasciare i social dopo le polemiche sollevate da questa vicenda,
la pm aveva scritto: «Non ho mai visto un sindaco plaudire bea(o)tamente per essere stato messo sotto tutela con tanto di
annessi e connessi di assessorati alla legalità affidati a pm antimafia ma qualcuno diceva che il coraggio (o la dignità)
se non la hai non te la puoi dare». Il post era finito su Repubblica e per il magistrato era scattata l’iniziativa disciplinare
conclusasi, nel 2016, con l’assoluzione in considerazione del fatto che Marino aveva detto di non essersi sentito offeso e
per l’episodicità della condotta «tenuta da un magistrato con un positivo profilo professionale».
Ma nel 2017, la Cassazione aveva annullato l’assoluzione disciplinare e il caso era tornato al Csm che, lo scorso gennaio,
ha deciso per l’ammonimento accertando che «il significato oggettivamente assunto dalle frasi o dalle espressioni qualificate
come diffamatorie era idoneo a compromettere l’immagine del magistrato indipendentemente dalla percezione che il Sindaco di
Roma aveva mostrato di aver avuto»
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