La scelta del cognome comune, come cognome d’uso, non ha una valenza anagrafica e dunque non modifica la scheda. La Corte costituzionale ha valutato, per la prima volta, la legittimità della disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso per quanto riguarda il cognome comune scelto. È dunque legittima la norma contenuta nel decreto attuativo della legge Cirinnà (articolo 3 del Dlgs 5/2017) che prevede che la scelta del cognome comune non modifichi la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell’unione. Resta fermo - spiega una nota della Consulta - che la scelta effettuata viene invece iscritta negli atti dello stato civile (in base all’articolo 63, primo comma, lettera g-sexies, del Dpr 396/2000).
La questione è arrivata alla Consulta tramite il tribunale di Ravenna, in relazione a un procedimento promosso dall’Avvocatura per i diritti Lgbti-Rete Lenford. Alla base, la vicenda di una coppia di uomini che, nel 2016, ha costituito un’unione civile e scelto un cognome comune, che prima è stato annotato su atti di nascita e documenti, poi dopo il decreto attuativo, è stato cancellato. La legge Cirinnà prevedeva, infatti, la possibilità di annotazione all’anagrafe, che il decreto attuativo ha cancellato, con effetto retroattivo.
Per il tribunale remittente, la modifica della situazione anagrafica, legittimamente acquisita, poteva configurare una violazione dei diritti al nome, all’identità e dignità personale, e anche alla vita privata e familiare tutelati dalla Carta e dalla Cedu.
Il caso è stato discusso ieri in udienza pubblica alla Corte costituzionale, relatore il giudice Giuliano Amato. Gli avvocati dello Stato hanno sottolineato come il decreto attuativo abbia equiparato le disposizioni sulle unioni civili a quelle sul matrimonio, mentre la casistica a cui fanno riferimento i legali della coppia è «molto limitata» ed stata già risolta, sul piano giuridico, da alcuni giudici ordinari che, diversamente dal tribunale di Ravenna, non si sono rivolti alla Consulta.
L’avvocatura dello Stato ha ricordato che, quando fu emanata la legge sulle unioni civili, fu chiesto a gran voce che la norma fosse resa al più presto applicabile e per questo il decreto attuativo fu preceduto da un decreto-ponte che nella pratica ha prodotto diverse discrasie, superate - per evitare disparità di trattamento - dal provvedimento attuativo.
La Corte ha considerato dunque legittimo l’annullamento delle modifiche anagrafiche intervenute prima dell’adozione del Dlgs 5/2017 e valorizzata la breve applicazione della norma-ponte con la quale è stata regolamentata la tenuta del registro provvisorio delle unioni civili. «La dichiarata transitorietà del Dpcm 144/2016 - si legge nella nota della Consulta - e la brevità del suo orizzonte temporale portano ad escludere che le novità introdotte da tale fonte di rango secondario abbiano determinato l’emersione e il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona».
© Riproduzione riservata