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Cassazione

Isis: dal tipo di telefonino alle regole sui bagagli, ecco le istruzioni per i foreign fighters

Anche la sorella della prima foreign fighters italiana Fatima aveva scelto la via dell’ ègira, e dunque l’abbandono delle zone di origine abitate dai miscredenti, per raggiungere, con tutta la famiglia, i territori dello Stato islamico e unirsi alle truppe del Califfo.

La condanna - La Cassazione (sentenza 49728), ha depositato le motivazioni con le quali ha confermato la condanna - a 5 anni e 4 mesi di reclusione per terrorismo - per Marianna Sergio, sorella di Maria Giulia Sergio diventata Fatima dopo il matrimonio con un musulmano marocchino e la conversione. I giudici non hanno creduto alla tesi del viaggio come occasione per approfondire la religione islamica. Perché, se così fosse stato, non c’era motivo di organizzare il trasferimento di tutta la famiglia nell’area dello Sham e dei combattenti islamici, entrando in una condizione di vera clandestinità.

Il viaggio verso il califfato - Della storia della famiglia Sergio, originaria di Torre del Greco ma residente a Inzago in provincia di Milano, si erano occupati i media, quando un blitz delle forze dell’ordine, il 1° luglio del 2015, aveva impedito il viaggio verso la jihad, arrestando i componenti della famiglia che aveva già venduto i mobili e incassato il Tfr del padre di Fatima e Marianna. Decisive erano state le intercettazioni dalle quali erano emerse anche le “perplessità” della madre di Fatima che chiedeva alla figlia se avrebbe trovato un orto o una lavatrice.

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I foreign fighters - La Cassazione - nel confermare la condanna anche per i coimputati parenti del marito di Fatima (sebbene per pene inferiori) - ha dato conto dell’analisi fatta in sede di merito del fenomeno dei foreign fighters cresciuto con l’espandersi del territorio del Califfato. Uomini e donne che lasciano il loro paese per rispondere alla “chiamata alle armi”. Proprio le donne, spiegano i giudici, erano sollecitate ad andare in Siria, anche attraverso i social network, per contribuire a creare una nuova società.

La donna del Jihadista - Alla “donna del jihadista”, figura “portante” della struttura, veniva riconosciuto non solo un ruolo di supporto nella formazione maschile, ma «non di rado funzioni proprie di reclutamento, di impiego di armi e di gestione di altre donne, appartenenti a diverse minoranze religiose, talvolta ridotte in schiavitù e spesso vendute come concubine ai combattenti islamici». L’attività di raccolta dei soggetti verso la Siria era gestita da un coordinatore che riceveva i foreign fighters, in genere occidentali, in Turchia, luogo dal quale partivano verso la Siria. Lo stesso coordinatore si occupava di stabilire delle regole per dislocare nel territorio di mujahideen.

Il decalogo di comportamento - Dalle intercettazioni telefoniche - precisano i giudici - è stato possibile anche conoscere un “decalogo” di comportamento. C’era ad esempio il divieto di portare con sé telefoni cellulari di nuova generazione, facilmente rintracciabili, o i tablet, mentre era possibile avere con sé telefonini “vecchi” che permettevano solo chiamate. Vigeva il limite di una valigia a testa: alle esigenze di vita quotidiana «avrebbe provveduto la nuova realtà incorporante».

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Arrivati a destinazione gli uomini erano avviati ai campi di addestramento, per circa due mesi, e le donne ai corsi per approfondire lo studio del Corano. Costante il messaggio sul compimento di un percorso di catarsi interiore, nel rispetto del dovere primario di ogni musulmano: raggiungere il Califfato e partecipare all’eliminazione dei miscredenti. La Cassazione ha ritenuto che, nel caso della ricorrente «l’esaltazione e la condivisione degli scopi degli attentati e l’égira stessa, fossero indicatori di un comportamento di piena associazione alla struttura preceduta dalla adesione ai precetti dell’Islam radicale».

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