È incostituzionale il criterio di determinazione dell'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato – ancorato solo all'anzianità di servizio - previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 e confermato dal cosiddetto “decreto dignità” del 2018. Il meccanismo di quantificazione – un “importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – rende infatti l'indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall'ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Pertanto, il giudice, nell'esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo
(24, ora 36 mensilità), dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità, dovrà tener conto non solo dell'anzianità di servizio
– criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 – ma anche degli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione
della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento
e condizioni delle parti)”.
È quanto si legge nella sentenza n. 194 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra) con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale l'articolo 3, comma 1, del Dlgs
23/2015 – che in attuazione della legge delega 183/2014 (cosiddetto Jobs Act) ha disciplinato il “contratto a tutele crescenti”
– sia nel testo originario sia in quello modificato dal decreto legge 87/2018 (il cosiddetto “decreto dignità”), che si è
limitato a innalzare la misura minima e massima dell'indennità.
La disposizione censurata contrasta anzitutto con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione
di situazioni diverse. Secondo la sentenza, l'esperienza mostra che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato
dipende da una pluralità di fattori – l'anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è solo uno dei tanti – e che questa pluralità
è stata sempre valorizzata dal legislatore. La tutela risarcitoria prevista dalla disposizione denunciata si discosta, però,
da questa impostazione perché àncora l'indennità all'unico parametro dell'anzianità di servizio. Così facendo, finisce col
prevedere una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti
intimati dal datore di lavoro, venendo meno all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, anch'essa imposta
dal principio di eguaglianza.
L'articolo 3 contrasta anche con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell'inidoneità dell'indennità a costituire
un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione
del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
La rigida dipendenza dell'aumento dell'indennità dalla sola crescita dell'anzianità di servizio mostra la sua incongruenza
soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio principale. In tali casi, appare ancor più inadeguato
il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della
misura minima dell'indennità di 4 (e, ora, di 6) mensilità. Pertanto, l'articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 non realizza
un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell'impresa da un lato e la tutela del
lavoratore ingiustamente licenziato dall'altro.
Dall'irragionevolezza dell'articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 discende anche il vulnus recato agli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione. La Corte afferma: “Il forte coinvolgimento della persona umana (…) qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”.
La disposizione censurata viola, infine, gli articoli 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'articolo
24 della Carta sociale europea, secondo cui, per assicurare l'effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento,
le parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo
indennizzo o altra adeguata riparazione”.
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