Il pubblico impiegato non può essere punito con una sanzione disciplinare solo perché “osa” chiedere quale è il percorso
professionale del suo capo. Il lavoratore ha il diritto di informarsi sul suo dirigente per sapere se ha le carte in regola
per il posto che ricopre o ha usato una corsia “preferenziale”.
La Corte di cassazione (sentenza 28923) dà partita vinta ad una dipendente dell’Inps, sanzionata con un rimprovero scritto per aver mandato alla direzione risorse umane dell’istituto diretto da Tito Boeri, una richiesta di accesso agli atti, per sapere quali fossero i requisiti e il percorso professionale della sua dirigente sospettando che non avesse sostenuto un concorso pubblico. Il silenzio da parte degli interlocutori non aveva fatto desistere la donna, che anzi aveva rilanciato inviando una Pec con copia della sua istanza alla segreteria tecnica del collegio dei sindaci dell’Inps e alla segreteria del magistrato della Corte dei conti delegato al controllo dell’istituto. La risposta è poi arrivata dalla direzione delle risorse umane che rigettava la richiesta per l’assenza «di un interesse diretto, concreto e attuale» idoneo a giustificare «l’accesso ai dati richiesti». Ma non finisce lì, perché dopo un mese alla ricorrente l’Inps ha contestato la violazione del principio di correttezza verso l’amministrazione per l’invio dell’istanza al collegio dei sindaci dell’Inps e al magistrato competente dei giudici contabili.
La Cassazione la pensa diversamente, respinge il ricorso dell’Inps e “premia” con un verdetto favorevole la dipendente che
cercava chiarezza e la famosa trasparenza della Pa. La Suprema Corte non si è limitata a confermare l’illegittimità del rimprovero
scritto - come aveva già fatto la Corte di Appello di Catanzaro nel 2017 - ma ha anche condannato l’Inps a pagare tutte le
spese dei tre gradi di giudizio pari a quasi 20mila euro. Per i giudici di piazza Cavour, correttamante è stato escluso che
il comportamento della lavoratrice avesse una rilevanza disciplinare. L’iniziativa andava anzi considerata «espressione dei
generali doveri di cura del pubblico interesse cui i lavoratori pubblici dovrebbero sempre conformarsi». Gli statali hanno
il diritto di sapere se i loro capi hanno le carte in regola o se hanno ricevuto un “aiutino” per occupare la poltrona. Per
tutti gli aspetti di rilevanza penale e contabile di questa storia “opaca” gli atti sono stati mandati alle magistrature competenti.
L’impiegata aveva chiesto lumi sulla sua “capa” in quanto dal curriculum pubblicato sul sito dell'Inps - scrive la Cassazione
- «si desumeva che la dirigente aveva ricoperto incarichi sia presso il Ministero delle Finanze sia presso l’Inps in seguito
ad una procedura di mobilità originata da una prima esperienza di dirigente presso il Consorzio tra i comuni della Provincia
di
Crotone, ente pubblico economico, cui si accede senza concorso pubblico». Al di là degli aspetti squisitamente penalistici,
quel che è certo - si legge nel verdetto - è che la vicenda si caratterizza per la presenza di notevoli profili di illiceità,
che l’impiegata «con la sua istanza di accesso agli atti voleva chiarire, mentre il rigetto dell’istanza e l’irrogazione della
sanzione disciplinare risultano oggettivamente finalizzati ad occultare l’accaduto».
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