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Telecamera puntata sulla vicina in lite: è reato di molestie

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CONDOMINIO

Telecamera puntata sulla vicina in lite: è reato di molestie

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Il reato di molestia o disturbo alle persone, previsto e punito dall’articolo 660 del codice penale, prevede che chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero per mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a cinquecentosedici euro.
La norma tende a tutelare la tranquillità pubblica per la rilevanza che il suo turbamento ha sull’ordine pubblico, in considerazione dell’eventuale possibilità di reazione da parte della persona offesa.

Pertanto la protezione del privato vittima di molestie è soltanto riflessa, atteso che tutela viene accordata anche a prescindere e, addirittura, contro la volontà della persona molestata o disturbata (tra le molte, si veda la sentenza di Cassazione 43704/2007).
La condotta idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice risulta quella oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, invadendo la vita privata e quella di relazione altrui.

È necessario il dolo specifico dell’agente, pertanto, lo stesso deve essere mosso da “petulanza” o da altro “biasimevole motivo”, consistente nella volontà di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà, laddove per “petulanza”, deve intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva e, perciò, fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera, mentre il “biasimevole motivo” è quello che, pur diverso dalla petulanza, è ugualmente riprovevole in se stesso o in relazione alla persona molestata.
Ciò posto, ai fini della configurabilità del reato non hanno rilievo le pulsioni che hanno spinto ad agire e, pertanto, sussiste il dolo nel reato in questione anche nel caso in cui si arrechi molestia o disturbo alle persone allo scopo di esercitare un proprio diritto o preteso diritto, allorché ciò avvenga con modalità arroganti, impertinenti o vessatorie (Ex multis: Cass. n. 22055/2013).

La Corte di Cassazione, VII Sez, penale, con ordinanza 55296, depositata in data 11 dicembre 2018, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza della Corte di merito che lo aveva condannato alla pena di euro 340,00 di ammenda per molestia ai danni di una condomina.
Il Giudice di legittimità, infatti, ritiene che la «sentenza impugnata ha invece correttamente valutato gli elementi risultanti agli atti, con una motivazione congrua, logica e priva di erronea applicazione della legge penale e processuale, richiamando in particolare l’ambito di commissione dei reati, le condotte poste in essere, l’astio verso la persona offesa, l’intromissione nella sfera di riservatezza, il disagio procurato e il turbamento della vita quotidiana».
In particolare è stato evidenziato come la vicenda processuale si inseriva in più complesso ambito di contrasto nel rapporto tra condòmini, laddove l’imputato, adirato per l’opposizione da parte di una condomina alla installazione di una canna fumaria e di alcune tende parasole, nonché all’utilizzo particolare del cortile comune, aveva dato corso nei confronti della stessa ad una serie di condotte moleste, oltre che a dispetti vari.
Nello specifico, i comportamenti posti in essere nei confronti della persona offesa, per come accertato nel corso dell’istruttoria, erano consistiti in contrasti verbali, anche accesi, con la stessa, nell’installazione di una telecamera per controllare i movimenti della condomina con l’intento di carpirne le immagini della vita privata e familiare ovvero simulando l’intenzione di investirla con la propria autovettura.
A nulla sono valse le difese dell’imputato che riteneva come alcuna condotta avesse assunto le caratteristiche della petulanza o del biasimevole motivo, in considerazione del fatto che le azioni dello stesso risultavano inserite in un ambito di contrasti condominiali reciproci e, pertanto, non erano finalizzate a creare disturbo.
La Suprema Corte, infatti, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di 3.000,00 euro alla cassa delle ammende

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