Dopo anni di annunci, arriva la cedolare secca sui negozi affittati. La legge di Bilancio, però, sottopone i potenziali interessati a una serie di limiti così severi che ben pochi potranno davvero applicare la tassa piatta al 21 per cento.
Tanto per cominciare, la cedolare è limitata ai fabbricati accatastati nella categoria «negozi e botteghe» (C/1). Esclusi, quindi, gli uffici (A/10), ma anche i laboratori artigianali (C/3). Inoltre, i locali cui si applica la cedolare non devono superare i 600 metri quadrati.
Nella superficie, però, non si contano le pertinenze, che pure possono essere locate insieme al negozio (la legge non fissa limiti espliciti, né di numero, né di categoria catastale). Quindi, ad esempio, si potrà tassare al 21% il canone derivante dalla locazione di un negozio di 500 metri quadrati e di un magazzino pertinenziale di 120 metri quadrati.
I soggetti interessati
La cedolare secca può essere applicata dai locatori persone fisiche. Sono quindi escluse le società, ma potrebbero rientrarvi gli imprenditori che sfrutteranno la chance prevista dalla legge di Bilancio per “estromettere” dalla sfera aziendale gli immobili e darli in locazione come privati.
La legge non dice nulla sull’inquilino, che quindi potrà anche essere una società.
Il vincolo ai contratti
Il limite più grande riguarda i contratti, perché si può optare per la nuova imposta solo se la locazione è stata stipulata nel 2019 (e solo a patto che alla data del 15 ottobre 2018 non fosse in corso - tra gli stessi soggetti e per lo stesso immobile - un contratto non scaduto e poi risolto in anticipo). Al di là di quest’ultima clausola antielusiva previste dalla legge, si tratta di una restrizione che ha una ragione puramente economica: pensata cioè per minimizzare il costo per l’Erario.
Così, la platea dei potenziali beneficiari dell’aliquota al 21% è molto ridotta, perché si escludono i circa 800mila negozi locati da privati (su un totale di 1,9 milioni).
I limiti alle regole
L’obiettivo della norma è ambizioso: combattere l’abbandono di intere vie colpite dalla crisi degli esercizi di vicinato e favorire il riutilizzo di locali ora vuoti o abbandonati. Poiché l’affitto di un negozio rende meno rispetto a quello di una casa (come evidenziato sul Sole 24 Ore del 24 settembre scorso), la cedolare dovrebbe servire a incrementare la marginalità dei locatori, consentendo di praticare canoni più contenuti agli inquilini. Ma dietro tanta parte dello sfitto non c’è alcun problema di canoni troppo alti, quanto piuttosto una carenza di domanda. In quest’ottica, è impensabile che basti una flat tax per invertire dinamiche di mercato segnate negli ultimi anni da un cambiamento strutturale (zone urbane “devitalizzate”, shopping attratto da centri commerciali e grandi store, eccetera).
Le locazioni commerciali, oltretutto, scontano una disciplina di legge molto rigida, che ha ormai compiuto i 40 anni (legge 392/1978). Dalla durata minima di sei anni rinnovabili nel tempo, passando per l’impossibilità di adeguare il canone, fino all’indennità di avviamento commerciale: sono molti i vincoli di cui si lamentano i locatori. In un contesto di mercato che nelle zone semicentrali e periferiche di molte città italiane è ben lontano dalla ripresa.
© Riproduzione riservata